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lunedì, dicembre 12, 2011

GOTTESMORDER - Ep


Tracklist:

1. Winternight
2. Abyss of Throats
3. Grim At Heart*


*bonus track from Tokyo Jupiter Records exclusive CDR series vol III.

Un pensiero alla Toscana e già la mente corre al seminale patrimonio letterale, terra dai gusti delicati in arte e gastronomia, una miriade di pensieri così dolci e bucolici che la carie è dietro l'angolo. Il fermento musicale riproposto in quest'ultimo periodo si oppone con fermezza a ogni orpello di delicatezza e alza il volume, esaspera i patterns, si sporca le mani nel quotidiano. I Gottesmorder non fanno eccezione. Difficile chiamarli giovani se l'anagrafe diviene un fastidio burocratico ma si guarda alla provenienza sonora, le radici affondano nel passato dei Violent Breakfast, dei Magdalene, dei Seicentodiciotto per citarne alcuni ma lista sarebbe generosamente lunga, tutto ciò per dire che non sono gli ultimi arrivati a strimpellare gli strumenti in cerca di due minuti di notorietà seguendo il trend del momento.
E ciò nonostante la loro proposta si inserisce a piedi fermi tra le maglie di quei suoni che negli ultimi tempi hanno trovato sintesi dal passato solo accennato e ora riscoperto, dove il nichilismo black-metal incontra l'irruenza hardcore, tanto da rendere difficile la vicinanza di sostantivo e aggettivo vista l'innegabile vicinanza di intenti.

Innegabilmente gli Wolves in the Throne Room hanno tirato le fila di questo processo archeologico, ma i Gottesmorder ne condividono contorno già di per sé vasti, ogni sfumatura ulteriore è merito di un processo indipendente. Un particolare su tutti, il carattere aulico dei lupi nel trio toscano viene a mancare, non c'è spazio per suggestioni di foreste o mistici landscapes, ci sono urbani paesaggi notturni in decadenza, c'è la furia degli His Hero is Gone nell'accelerazione di Winternight e un organo -ad opera di Pietro Riparbelli- che si accosta alla virulenza dei Neurosis di Given to the Rising, un suono che ha perso ogni tono di luminosità per giocare con le varianti del grigio.

Le melodie si affacciano sofferenti, ancora nelle orecchie le grida imploranti dei Fall of Efrafa, Abyss of Throats come Republic of Heaven, la grezza furia che scalcia il bastone di Justin Broadrick e lo accelera allo spasmo, dimenticando per un attimo la litania alla morfina targata Jesu.

Una delle prime descrizioni riferite ai Gottesmorder recitava: Black Sabbath, Black Flag, Black-metal. Difficile aggiungere altro, che siano le note a trascinare nella palude toscana. Il resto è presente http://gottesmorder.bandcamp.com/.

Neuros

mercoledì, ottobre 12, 2011

ORBE - Albedo



Tracklist:

Liliith
Xbalanque
Amaterasu
Sisifo
Arjuna


A distanza di ben 4 anni dal demo d'esordio "Opera Al Nero" torna a farsi sentire il quintetto piemontese degli Orbe, promettente act dedito ad un ibrido strumentale dalle forti tinte psichedeliche, con un nuovo lavoro che vede espandere e migliorare sensibilmente il proprio percorso sonoro.

"Albedo", questo è il titolo del nuovo parto, è un full-lenght composto da 5 episodi altamente cerebrali ove influenze quali Tool, Isis, Slint, Mogwai, June of '44, Shellac, (ma lungo le intricate e sfaccettate tracce se ne possono individuare molte altre) vengono coerentemente inglobate in un discorso di non facile ed immediata lettura, ma in grado dopo un'attenta immersione di convincere e regalare momenti di preziosa indagine interiore.

La band si dimostra più che mai attenta al lato concettuale della proposta musicale, in questo caso i 5 episodi che compongono "Albedo" ruotano intorno agli studi dello storico delle religioni e mitologie Joseph Campbell, ed in particolare al saggio "L'eroe dai mille volti", ove vengono suggerite importanti connessioni tra mitologia e psicologia analitica. Ecco così che vengono comparate ed accomunate dalle medesime figure archetipiche mitologie di tutte le culture del mondo....mesopotamiche nella sferzante apertura di "Lilith" (l'episodio di maggior impatto all'interno del disco), maya in "Xbalanque", shintoista con "Amaterasu", greca in "Sisifo" ed infine induista in "Arjuna", forse il momento più esaltante e riuscito in assoluto.

"Albedo" è stato pubblicato con licemza Creative Commons ed è scaricabile gratuitamente insieme all'ottimo artwork collegandosi al loro sito: www.orbe.it


-Edvard-

lunedì, maggio 02, 2011

THE CONFLITTO - Dusk Over the Nations

image

Tracklist:
1. Dusk over the Nations
2. Scribbling on some Fears
3. Disinformatjia
4. Hero
5. Beautiful Machine
6. Teddy
7. Small Rooms / Colourless Sand
8. Useless
9. The Earth Trembles
10. The End that I Dream
11. Residual of a Dream


Sulla lunga distanza segnata da una demo e da un ep, arriva finalmente il primo full degli spezzini TheConflitto “Dusk Over the Nations”, e come il precedente “Kids Die, Music and Protest don't Kill”, appare subito in evidenza una vena pulsante sulla fronte pronta a riversare sull’ascoltatore una dose imponente di malcontento.
In un processo di divenire, ancora una volta il quartetto apporta dosate ma importanti modifiche all’apparato sonoro, e quello che una volta era un suono più cupo e quadrato, senza per questo centellinare spigoli e ripartenze, ora si apre perde massa, si fa più snello grazie anche alla produzione, tingendosi qua e là di accelerazioni vicine all’hc melodico inteso dai Propagandhi, mantenendo comunque lo spessore di fondo. Si può sentire un progressivo dai numi tutelari che emergevano in passato quali i Botch, maestri nel costruire labirinti sonori all’interno di opulenti mura ritmiche, a questo giro invece le briglie sono maggiormente sciolte nell’approccio che può essere quello dei primi Knut, ecco allora la gentile voce melodica che apre il disco e introduce alla violenza di Scribbling in Some Fears, dissonante e bastarda, oppure i the Dillinger Escape Plan di Calculating Infinity la cui ombra appare anche fin troppo invadente in Disinformatjia.
Uno dei punti più alti del disco è sicuramente Beautiful Machine, che racchiude tutti gli elementi finora citati in una veste sicuramente personale e convincente, con un finale ossessivo che contrasta in maniera netta con le scorribande dei minuti iniziali.
E la menzione particolare la meritano anche Small Rooms / Colourless Sand che tra singhiozzi di chitarra e una batteria quadrata portano all’orecchio le storiche gesta dei Deadguy, così come la conclusiva Residual of a Dream, già contenuta nel precedente ep, preziosa nel suo finale a tinte fosche.
Ecco, da ciò si può evincere che forse i TheConflitto riescono a dare il meglio di sé quando il minutaggio si alza rispetto ai canoni tipici della proposta in cui si inseriscono, e questo è sicuramente un punto a loro favore. Qualche fantasma c’è ed evidente e qualche pezzo sottotono rispetto agli altri lo si può udire, ma nel complesso il risultato è positivo. Gli occhi e le orecchie sono quindi puntati su di loro e sul loro futuro come le telecamere dell’artwork, pronte a rilevare le nuove tracce di protesta degli spezzini.


Neuros

sabato, marzo 05, 2011

SQUADRA OMEGA - S/t




Tracklist:
1. Murder in the Mountains
2. The Mistery of the Deep Blue Sea
3. Hemen-Hetan! Hemen-Hetan!
4. Ermete
5. All the Words You Can Find


In passato le forze furono distribuite in singoli episodi, blocchi solo all’apparenza monolitici intarsiati su piani differenti, per questa nuova uscita cambia invece la forma di presentazione degli Squadra Omega, affidata alle movenze di più canzoni distribuite tra un “12 e un “7 per Holidays Records, già casa del precedente Tenebroso del 2009.
Il combo, che come ormai tutti sanno –ma è giusto ricordare- può vantare la presenza di membri pescati tra Movie Stark Junkies, With Love, Be Maledetto Now!, Mojomatics e di più, a questo giro non pone freno alcuno alla fantasia e con il beneplacito di Marty McFly salta a piedi uniti nella Germania dei primi ann’70, quella delle comuni e della psichedelia, in passato già toccata ma mai come questa volta evocata fino a renderla viva. E soprattutto, piazzare un filotto di canzoni che brillano di luce propria nonostante le radici ben in evidenza.
Accogliere l’ascolto con un componimento di sedici e più minuti è sberleffo, sfida, montagna già evocata nel nome e tutta da scalare, ma l’impresa è agevolata dalla bontà della proposta che va ad esplorare quei territori kraut-jazz così poco considerati nella nuova riscoperta di questo sonorità tanto palpabile di questi tempi, e allora ecco scorgere gli arabeschi degli Ibliss e dei Kollektiv, dando nuova vita a un’anima così poco rievocata e qui invece cangiante di tocchi eleganti dal suono moderno, solenni rintocchi e vortici appena accennati. Si balla il valzer sbilenco dei Can in the Mistery of the Deep Blue Sea, dalle ritmiche impazzite e ingolfate di afrobeat omaggiate di recente dai Mi Ami, mettendo un dito tra gli ingranaggi quadrati dei Neu! in All the Words You Can Find, scandita da un ritmo che fa venire in mente quelle scimmiette giocattolo dai piatti tra le mani.
E poi la sorpresa di Ermete che nasconde tra le notte il baffo ispido di Tony Iommi, con un rifacimento –omaggio- che non può non ricordare War Pigs, che con il passare dei secondi si trasforma in una marcia ossessiva a tinte fuzz.
Non una sterile opera a la History Channel, dentro questo disco c’è tutta la maestria di un gruppo che sa giocare con la psichedelia krauta come pochi altri di questi tempi, in un’elegante danza che è tutta loro, capace di far muovere i cervelli più pigri, gettarli dentro una tazza di perdizione e annegarli che ci si può fare colazione. Ne vogliamo ancora, e già sappiamo che a breve saremo accontentati.


Neuros

mercoledì, marzo 02, 2011

Stearica + Acid Mothers Temple & Melting Paraiso U.F.O



Tracklist:
01 - Vulture Chiama Fujiyama
02 - Queen Kong
03 - Warp Lag
04 - Noodles + Peperoncino
05 - I Nani
06 - Inan I
07 - 7 Alieni al di sopra di ogni Sospetto


Ritornano per la benemerita Homepathic records i torinesi Stearica, trio basso-chitarra-batteria che è già una garanzia, grazie ad una solida (ed ormai decennale) attività live nonché all'eccellente debutto discografico, Oltre.
Il sopracitato dischetto (che è bene recuperare prima di subito) già conteneva collaborazioni di un certo calibro: Amy Deino, Jessica Lurie, Nick Storring e Dalek (che insieme agli Stearica hanno realizzato uno dei loro brani più incredibili, secondo chi scrive).
E per il loro secondo appuntamento discografico i nostri non si sono fatti mancare niente.
Questo disco infatti è una collaborazione ad ampio spettro con gli Acid Mothers Temple & Melting Paraiso U.F.O., collettivo giapponese non bisognoso di presentazioni, con un'attività discografica e live monolitica ed una personalità decisamente sopra le righe, innestata su una psichedelia ed un folk assolutamente freak sposati a colossali ambizioni rumoriste.

Il disco documenta con precisione una jam session di meno di un'ora tra le due compagini. La musica scorre in libertà senza imporsi nessuna codifica, nessun marchio di genere o di stile; è semplicemente (si fa per dire) la personalità delle due band a miscelarsi e sincronizzarsi in un meraviglioso elogio alla pura qualità e goduria sonica.

Terminato un inizio esplicativo-medico-rituale, il disco inizia subito senza indugi in un'irrompenza sonora impetuosa, capace di divellere le orecchie e alzare immediatamente il livello d'attenzione.
Benché tanto Stearica e AMT possano dirsi delle band di rock psichedelico (almeno in partenza), qualcosa di totalmente nuovo scaturisce dalle loro combinate visioni musicali, arrivando ad una marzialità quasi industriale per poi muoversi in territori che si direbbero quasi jazz, andando poi ad esplorare texture ambientali e/o rumoriste, che pur senza tante sofisticazioni colpiscono dritte all'orecchio, la mente, il cuore.

Si consiglia vivamente di ritagliarsi quarantadue minuti di tempo per assaporare dall'inizio alla fine questo disco, compiuto, solido e oserei dire perfetto, nonostante la caratteristica improvvisata ed autogenerata di ciò che si ascolta.

Pensando alle definizioni musicali, ai "generi", alla classificazione in musica, sono sempre arrivato alla domanda: è davvero impossibile suonare veramente Liberi? Questo disco ci dimostra che potrà anche essere difficile, ma di sicuro impossibile non è.


-Godspeed you!-

mercoledì, febbraio 16, 2011

DEATH MANTRA FOR LAZARUS – Mu





2010, Grammofono al Nitro

Tracklist:

01. Atlantide
02. Carousell
03. Mu
04. Oppinion is not math
05. Maria callas
06. Boreale

Che significato ha fare post-rock nel 2010? Non certo quello di inventare, cambiare, sovvertire...probabilmente semplicemente esprimersi. Se poi si considera che i componenti della band in questione vengono da altri progetti ben più avviati non ci sono dubbi: urgenza espressiva, emozionalità viscerale adagiata su di un canovaccio stilistico preesistente.
I Death Mantra For Lazarus vengono da Zippo, Negative Trip, Keep Out, non hanno pretese, amano suonare e vogliono suonare, punto. Le coordinate sono chiare e semplici: post-rock (a tratti heavy, a tratti intimista e da camera), un velo di math ed una bella attitudine live che spesso rasenta il noise.
I quarantacinque minuti secchi di MU si perdono fra delicatissime suite chitarristiche echeggianti gli Explosions In The Sky, intrecci dinamici dove i tempi odorano di June Of 44 ( Four Great Points docet), assalti post-metal dalle sempre care movenze di un pellicano, ricordi di Massimo Volume, paesaggi catartici e minimali: un telaio di sensazioni e sapori, impressioni, pensieri, più che un disco un moleskine.

L'album si apre con quello che potrebbe definirsi il primo singolo del quartetto pescarese: Atlantide, di sicuro fra i pezzi più riusciti ed efficaci del lotto, cuore e sicurezza. Carousel mischia poi le carte, tanta sinfonia quanta frammentazione, crescendi e rarefazioni si muovono negli oscuri antri della mente umana: la tagliano, l'accarezzano, la mordono.
La titletrack prosegue il discorso della song precedente e di tanto in tanto, fra le aritmie, ci fischietta all'orecchio qualche volo pindarico su “australasiatiche città degli echi”. Lazzaro a questo punto è in piedi, si muove con noncuranza e tenera maldestria, a tratti incantato da qualche arco, cammina barcollando come fosse in estasi mistica. Opinion Is Not Math è il momento più alto, un reticolato (vedasi Paul Klee) dove basso e batteria solcano il tracciato e le due chitarre seminano germogli; il doppio binario si evolve, si attorciglia su se stesso, si compone e scompone arrivando ad esplosioni liberatorie, poi si riarrotola, si confonde e s'impenna, fino a ruggire ed impazzire come avesse scoperto di non aver alcuna via di fuga dal proprio ego. Quando il tormento passa arriva la rassegnata voce di Umberto Palazzo (storico cantante dei Santo Niente), il suo esperto raccontare ci parla di sconforto, dimenticanza, tristezza, decadenza, di Maria Callas, riscoprendo le lezioni di Emidio Clementi e demolendo gli ultimi strumentali minuti del pezzo, che, a questo punto, possono anche passare inosservati. Boreale è la pietra tombale di MU, nulla di nuovo, appendice “postqualcosannidoppiozero” che chiuede il lavoro senza allontanarsi dal suo contenuto, recuperando le iniziali note di violino e spegnendosi sul suolo come una lucciola che cade esanime.
Trequarti d'ora di buoni suoni, nessun miracolo, nessun esperimento alchemico, nessuna prospettiva, nessuna speranza: musica come se non esistesse alcun futuro.
I Death Mantra For Lazarus non son altro che un petalo di quell'italico fiore spontaneo dove giacciono anche Neil On Impression e Fog In The Shell. Forse ancora acerbi, ma dalle indiscutibili capacità compositive e tecniche.

www.myspace.com/deathmantraforlazarus


Mario Bava

QUARANTADUE - L'Estinzione E' Un Gioco Di Squadra


Tracklist:
1. Babel
2. Il Grido
3. Vi siete persi nella neve
4. Nel Buio
5. Vogon

Arriva il primo ep per i Quarantadue, band di Milano. Cinque pezzi in digisleeve di cartone ruvido, semplice ma efficace. Cinque pezzi che si posizionano in quel vasto territorio tra Deftones e Tool, anche se qua e là fanno capolino altri numi tutelari, come Nine Inch Nails e Isis ultima maniera. Nulla di particolarmente nuovo nè ricercato quindi, ma tutto sommato fatto benino, i pezzi funzionano e la voce alterna scream e melodico in scioltezza. A pelle mi piace un sacco il timbro dello scream e mi piace meno quello del cantato melodico, ma sticazzi. Mi piace molto anche la scelta dell'italiano: è sincero, troppo spesso l'inglese diventa un cliche dietro il quale nascondersi quando si ha niente da dire.

Detto questo, è inevitabile che qualche ingenuità ci sia, i ragazzi con gli strumenti ci sanno fare (anche se la voce melodica qua e là stona) ma le infuenze si sentono un pelo troppo, manca un po' di carattere. Dopodichè è il primo ep, ci sta tutto, se è vero che ho sentito esordi migliori è altrettanto vero che ne ho sentiti di nettamente peggiori.

Last but not least: i pezzi sono rilasciati sotto licenza Creative Commons. E' bello vedere che sempre più gente si stia rendendo conto che il futuro è adesso.


Nitraus

martedì, febbraio 01, 2011

EARTH - Angels of Darkness, Demons of Light I





Siediti nella penombra di una stanza di notte, accenditi una sigaretta e schiaccia play.
Se hai inserito nello stereo “Angels of Darkness, Demons of Light I” degli Earth ti stai per fare il più bel viaggio extrasensoriale della tua vita.
Questo è in breve il resoconto di cosa può essere l’ultimo capolavoro della band di Dylan Carlson, uno che era partito dall’eroina degli anni 90 e che arriva in questo 2011 a raccontarci con linee melodiche morbide, sussurrate ed estasianti cosa si può fare con una chitarra e ben poco altro.
Batteria, basso, chitarra e violoncello, chi l’avrebbe mai detto che il confuso caos magmatico di “Earth2 : Special Low Frequency Version” si sarebbe evoluto in questo paesaggio notturno, dolce e malinconico come non mai.
Gli Earth arrivano in questo freddo inverno del 2011 con una perla a dir poco meravigliosa.
La dilatazione totale e angusta del passato, viene ora riorganizzata in un cammino oramai iniziato nel 2005 con “Hex Or Printing In The Infernal Method” e proseguito fino al 2008 dove “The Bees Made Honey in the Lion’s Skul” dievenne la rappresentazione dello sboccio finale della musica degli Earth.
Invece quello che non ti aspetti è che a distanza di tre anni i padri del Drone escano dal loro mondo con una nuova sbocciatura, forse anche più completa e matura di quella passata.
“Angels of Darkness, Demons of Light I” è oltretutto solamente l’inizio, come si evince dal titolo esiste una seconda parte già pronta e registrata che prima o poi vedrà la luce e solo allora forse la maturazione di questo gruppo sarà portata a termine.
Difficile dirlo, già dopo “The Bees...” nessuno avrebbe pensato che gli Earth sarebbero stati capaci di superarsi, ma ormai non poniamo limiti a quello che Carlson & soci possono e sanno fare.
“Old Black” apre questa “piece” riagganciandosi li dove, la titletrack dell’album precedente chiudeva quel capolavoro di cui abbiamo già accennato. Chitarre eteree, evaporazione di suono dove una batteria e un basso ritmicissimi creano quelle cadenze atte a rallentare la vita intorno durante l’ascolto, con l’aggiunta di un violoncello magico e sognante, triste per definizione, che sa dare al suono degli Earth quella profondità che a volte solo l’uso di sostanze proibite riesce a creare.
Con questo album nuovo, gli Earth stessi diventano una sostanza proibita, meravigliosi, sognanti, creano psichedelia nera in un modo che nessuno riesce a fare oggigiorno.
“Father Midnight” è la colonna sonora di un film muto dove il lento cadenzare della batteria ci fa camminare con il protagonista lungo queste strade deserte e notturne alla ricerca di un qualcosa, forse se stessi che però in realtà non troveremo mai.
Hanno questa capacità gli Earth, non lanciano messaggi definiti, loro creano l’idea poi sta a te farti strada fra i fumi e le nebbie che le note spandono lungo il loro cammino.
Pregevolissimo esempio di questo cammino è “Descent to the Zenith” che con il suo incedere ci accompagna dove vogliamo essere accompagnati e via scivolare lungo sentieri misteriosi.
Approdando alla titletrack, ormai consuetudine per loro quella di chiudere i loro dischi con la titletrack, dove per 20 minuti veniamo risucchiati in vortici spazio temporali memorabili e solo alla fine ci accorgiamo che ormai la sigaretta è finita e che il disco con lei. Apri gli occhi e ti ritrovi li dove eri partito nella tua poltrona nella penombra.
Che fare ora? accenditi un’altra sigaretta e schiaccia nuovamente play, ci saranno altri nuovi mondi dove il nuovo album degli Earth ti potrà portare.

Signori questo è un capolavoro.


PostNero.

lunedì, gennaio 24, 2011

HUNGRY LIKE RAKOVITZ / O - Split




Tracklist:


HLR side
A1. Stop Walking, You're Dead
A2. There Hands Aren't Made for Pray
A3. Mombious Hibachi (The Melvins)
A4. Nice to Kill You
A5. Stammen Fra Taarnet (Burzum)
O side
B1. Inestinto
B2. Come il Buio


Lo split che vede gli Hungry Like Rakovitz dividere con gli O un bellissimo 7” dorato è in questo inizio di 2011 una vera e propria fucilata in faccia.
Andiamo con ordine, gli O ci propongono 2 tracce a dir poco tirate e violente, grind strisciante con un cantato in italiano che rende decisamente più agevole la comprensione del messaggio.
Violenza e stile si mischiano benissimo in questa band che esordisce con questo split lasciando intravedere potenzialità ben notevoli.
I testi, sui quali voglio soffermarmi un attimo proprio perchè in italiano, ci raccontano di solitudine, rabbia e disperazione, ma con un che di ragionato che li rende decisamente parte integrante del messaggio, che spesso, anzi troppo spesso, causa l’uso di una lingua straniera viene poco colto, quindi applausi agli O per questa scelta.

Veniamo ora al secondo lato, quello degli Hungry Like Rakovitz, bergamaschi con il grind al posto del sangue. LA violenza in Italia per me porta il loro nome tatuato sulla schiena. Cinque tracce fra cui due cover, “Mombious Hibachi” dei The Melvins e “Stammen Fra Taarnet” di Burzum, entrambe eseguite in maniera personalissima e decisamente riuscite.
Gli altri tre pezzi come indicato poco fa sono LA violenza fatta musica, spietati, non lasciano respirare e ti stringono le mani al collo facendoti morire in un mare di cazzi tuoi.
Non c’è una benchè minima speranza di sopravvivenza nel mondo narrato dagli Hungry Like Rakovitz.

Accoppiare queste due band è stata una scelta azzeccatissima, riescono ad amalgamarsi benissimo dando al 7” un sapore malvagio e mefitico che poche volte il “made in italy” riesce a dare senza risultare sdegnoso e fin troppo derivativo (n.d.r. questo termine fa cagare!).

Menzione a parte è per l’artwork, un vero e proprio gioiello.
Chi, come me, ha avuto o avrà l’occasione di accaparrarsi una delle 100 copie numerate a mano (da satana) dell’edizione speciale si troverà un vero e proprio gioiello fra le mani con tanto di 7” dorato e racchiuso in un packaging veramente curato, dove uno splendido cervo campeggia in copertina il tutto a firma di “Clementine” a cui vanno i miei personali complimenti.
Piccolissima nota sempre sull’artwork il laccio che chiude il packaging rende il tutto ancora più misterioso e affascinante, ottima scelta.
Brave anche tutte le etichette che hanno supportato quest’uscita. DIY italiano, quando lo facciamo sul serio, lo sappiamo fare bene.


PostNero.

martedì, gennaio 11, 2011

AMIA VENERA LANDSCAPE - The Long Procession



Tracklist:
01. Empire
02. A New Aurora
03. My Hands Will Burn First
04. Ascending
05. Glances pt.1
06. Glances pt.2
07. Marasm
08. Nicholas
09. Infinite Sunset Of The Sleepless
10. The Traitor's March



Eccoci finalmente pronti ad occuparci di uno dei debut album più attesi e di una della band più discusse dell'underground musicale italiano (e non solo) legato alla scena metal/hardcore, visto che la giovane band veneta tra live di supporto a nomi del calibro di Underoath e Dillinger Escape Plan ma soprattutto un massiccio passaparola online è riuscita a conquistarsi una certa notorietà pur essendo attualmente senza contratto ed avendo per ora pubblicato solamente un breve Ep autoprodotto.
L'attesa per questo full-lenght si è fatta notare ma è anche diretta conseguenza dell'alta professionalità della band, attenta a curare ogni minimo dettaglio della propria sfaccettata proposta artistica.

The Long Procession è un concept album diviso in dieci tracce che sfociano una nell'altra, alternando momenti di raro impatto frontale con vorticosi cambi di tempo, ad altri più melodici e soffusi, intervallando il tutto con stacchi ambientali e progressioni strumentali di chiaro stampo post-metal.
Ai primi ascolti l'album con i suoi 68 minuti di durata può facilmente apparire piuttosto pesante da digerire, ma in definitiva direi che una volta metabolizzato tutto torna e le varie tracce si rivelano ben collegate tra loro, detto questo è innegabile il fatto che alcuni intermezzi ambientali e strumentali facciano perdere un pò d'impatto e fluidità alla tracklist.
Il trittico d'apertura composto da Empire, A New Aurora e My Hands Will Burn First è assolutamente perfetto nel proprio debordante incidere, reso da una sezione ritmica micidiale (in particolare impressiona il drumming di Simone Pellegrini) che in combinazione con un dissonante wall of sound chitarristico ed il possente growling di Alessandro Brun rivela tutto il potenziale tecnico/compositivo del giovane sestetto, magnificamente supportato poi da una produzione che definire scintillante è riduttivo.
Con il lungo episodio ambientale Ascending l'album vira verso atmosfere decisamente più rarefatte e melodiche, sublimate nell'accattivante singolo Glances. A questo punto la band si spinge ancora oltre con i 14 minuti di un'altra strumentale, Marasm, eccellente composizione dai tratti progressive che miscela con sorprendente maturità tecnicismo ed epicità.
E' la volta poi di Nicholas, a mio parere il punto centrale dell'album nonchè pezzo maggiormente riuscito ed in grado di sintetizzare in un solo colpo tutte le sfaccettature del sound della band.
Il breve intermezzo ambientale Infinite Sunset Of The Sleepless introduce The Traitor's March, perfetto tassello di chiusura dell'album, impreziosito dalle sempre ottime melodie vocali del chitarrista Marco Berton, in questo episodio particolarmente efficaci e decisive per la perfetta resa del mood del brano.

In conclusione non possiamo che dirci colpiti e soddisfatti del risultati raggiunti dalla band con The Long Procession, un debut album in grado di mettere in chiaroscuro moltissime band dai nomi altisonanti e con già molti anni di esperienza alle spalle anche se, a mio parere, la band in futuro potrebbe rendere il proprio lavoro sulla lunga distanza magari un pelo meno ambizioso ma senza dubbio maggiormente compatto, tagliando qualche intermezzo strumentale/ambientale di troppo.


Amia Venera Landscape


-Edvard-

GHOST EMPIRE - S/t




Tracklist:

1. Omega Glory
2. Gukurahundi
3. Gnosticism
4. Scalar Beams
5. Resurrection
6. Blood Harvest
7. Dialectic
8. Ghost Empire


I Ghost Empire, super gruppo che nasce dall’unione tra diversi membri della scena sludge italiana ed in particolare toscana, tra cui Stoner Kebab, Cosmotron, Devoggol, sono punto di riferimento assoluto che per chi ha a cuore tali sonorità e finalmente nel 2010 ci regalano la loro prima uscita ufficiale, un doppio Lp da ben 60 minuti di puro magma nero, una grossa colata di pece sui sentimenti.
Riff di chitarra schiacciasassi e bassi spacca ossa, non c’è un attimo di tregua in questo marasma di dolore e soffocamento, a cui va poi fatta una doversosa menzione ai suoni, a dir poco eccellenti e per certi versi inebrianti attraverso richiami alla più classica psichedelia anni '70, mischiata al doom più nero che vi venga in mente.
Dolore e frustrazione, argomenti ormai forse iper abusati in un mondo come quello dello Sludge/Doom, ma questi ragazzi ci sanno fare tanto che è difficile non alzare le corna al cielo e applicarsi nella sana arte dell’headbanging.
Spiccano decisamente i vari brani all'interno dell'album, che non diventano mai banali e non stancano nonostante la consistente durata, con la band che cerca e riesce nel rendere il suono particolarmente ricercato, che eviti di mescolarli alla tradizionale gran matassa di queste sonorità.

Applausi quindi ai Ghost Empire, che si rivelano un gran gruppo su cui poter sicuramente puntare e dal vivo poi devono essere una vera e propria esperienza sonora, per il momento in questa sede vanno promossi a pieni voti essendo autori di un debut album tra i migliori in assoluto dell'annata appena trascorsa.

Ghost Empire


PostNero.

domenica, gennaio 09, 2011

HIEROPHANT - S/t




Tracklist:
01. Hermetic Sermon Pt.1
02. I Am I, You Nobody
03. As Kalki
04. Mother Tiamat
05. Hermetic Sermon Pt.2
06. Lambgoat
07. We Know Love
08. Abissus Abissum Invocat
09. 1000 Winters
10. Hermetic Sermon Pt.3



Il connubio tra elementi black metal ed hardcore sembra stia ormai per divenire la tendenza del momento, con diverse proposte interessanti uscite negli ultimi anni tra cui sugli scudi abbiamo band quali i francesi Celeste o ancor meglio i nostrani The Secret, ed il debutto degli Hierophant si inserisce appunto su queste coordinate stilistiche.
Il quintetto della provincia di Ravenna è di recente formazione, essendosi affacciato sulla scena solamente nel 2009, ma si è da subito mostrato particolarmente attivo in sede live suonando addirittura in supporto di band del calibro dei Poison The Well.
Il gruppo si è poi focalizzato principalmente sulla scrittura di nuovo materiale per arrivare a registrare il debut album omonimo oggetto di questa recensione.
Il sound degli Hierophant è violento, cupo e malsano, ben reso dal lavoro in fase di produzione ed in perfetta sintesi tra old school (Imtegrity tanto per fare un nome, e guarda caso proprio David Hellion compare come guest) e le nuove tendenza post-hardcore, ma ciò che impressiona positivamente al di là di chiari rimandi a questa o quell'altra band, è la capacità di scrivere pezzi semplici ma affatto banali, diretti e d'impatto ma assolutamente pregni di carattere e pathos.
L'album, incorniciato da un intro ed un outro davvero azzeccate, si presenta anche alquanto vario, passando da episiodi dai ritmi più sostenuti (I Am I, Lambgoat, We Know Love) ad altri più cadenzati e particolarmente sulfurei (As Kalki, Mother Tiamat, 1000 Winters), anche se è con Abissus Abissum Invocat che ha mio parere vengono raggiunti i migliori risultati, miscelando e sintetizzando mirabilmente i due approcci.
In conclusione non possiamo che trovare complessivamemte riuscito questo lavoro che, se da una parte certamente non brilla per originalità, dall'altra denota carattere ed incisività, non cosa da poco per un debut e soprattutto per una band nata da così poco tempo. Avanti così.


Hierophant


-Edvard-

venerdì, gennaio 07, 2011

VISCERA/// - 2: As Zeitgeist Becomes Profusion of the I



Tracklist:
1. Ballad Of Barry L.
2. Hands In Gold
3. Um ad-dunia
4. They Feel Like Co2


Due anni fa e qualcosa più, Cyclops faceva naufragare in maniera decisa i Viscera/// lontano dai territori grind degli esordi, e se qualche occhiata alla terra ferma era ancora riscontrabile, con il nuovo album sono stati volutamente tirati i remi in barca per prendere il largo.
2: As Zeitgeist Becomes Profusion of the I, è un album ambizioso già dal titolo, atto a celare la prosecuzione del focus iniziato con il disco precedente, un viaggio sul riconoscimento della propria esistenza che in questo episodio trova la sua pausa di riflessione, come una sosta obbligatoria in un percorso tortuoso iniziato da tempo.
Per questo motivo i tempi rallentano e le atmosfere si dilatano, con quattro composizioni diluite in circa quaranta minuti di musica, che hanno le proprie radici nelle passate Iris Overburden o Titan, ma con una coesione di fondo che è evidente soprattutto nelle chitarre che si adagiano in maniera uniforme a riempire qualsiasi spazio, mentre frammenti solisti disegnano melodie liquide come in Ballad of Barry L., una ballata appunto, e per quanto atipica possa essere il nome non è fuorviante, ma rende palpabile l’essenza dell’introspezione. L’approccio può essere definito come doom, ma come a livello concettuale, anche la musica ha ben poco a che spartire con il passato e con tonalità terrene, cosicché anche i richiami allo space-rock appaiono trasfigurati e riletti in una chiave nuova, che per comodità non si può definire che moderna, affiancati da voci che si affacciano dietro un riverbero ovattato e dal piglio rock, semplicemente.
Canzoni come Hands in Gold e They Feel Like Co2 riescono nell’impresa –di questi tempi- sempre più difficile nel coniugare cambi di registro e generale senso dell’ordine, senza abbandonare la canzone a onanismi vari, ma mantenendola sempre su una rotta precisa nonostante le deviazioni, si chieda conferma a band come Intronaut o The Ocean quale sia il rischio ad allontanarsi dalla rotta: naufragio e conseguente saluto ai pesci. La tavolozza pesca tanti colori dalle tonalità calde, e un paragone calzante potrebbe essere quello con Discipline dei King Crimson, un’influenza sicuramente riscontrabile, elaborata però in un contesto estremo e visionario come quello del gruppo cremonese.
E allora è impossibile non stupirsi dinanzi alla progressione di Um ad-Dunia, la più avvincente del disco, con passaggi di registro dall’epico al sinistro, come nel finale tirato allo spasmo e poi nuovamente concretizzato in muraglioni sonori, che nonostante la mole si mantengono eleganti e precisi, vivi insomma.
I Viscera/// quindi non pongono freno alla loro sperimentazione, in un ambito dove la commistione tra metal, derivazioni hardcore e passaggi ambientali pare vicina alla saturazione, loro riescono comunque a sorprendere, come sono riusciti di recente a fare solo i Juggernaut.
E allora se di trilogia si può parlare, questo secondo capitolo bissa la qualità di Cyclops e mantiene ancora aperte numerose strade per l’evoluzione sempre perseguita dal gruppo, senza donare alcun punto di riferimento sui futuri sviluppi, e questo in un periodo dove tutto è scontato e prevedibile, è forse tra le più grandi qualità.

Viscera///


Neuros

sabato, ottobre 30, 2010

MARNERO - Naufragio Universale





Tracklist

01. Il Diluvio Universale Secondo L'Ipotesi Ryan-Pitman
02. Zoster (La Parte Sbagliata / I Farmaci Giusti)
03. Tanto Ride Tanto Piagne
04. L'isola Dei Serpenti
05. Ovunque Naufragio


In una giornata di pioggia come questa non si può fare a meno di recensire un album il cui titolo invita proprio a guardare fuori dalla finestra e rendersi conto che i Marnero hanno perfettamente ragione.
“Naufragio Universale”, sta per crollare tutto quello che ancora non è crollato, sta per devastarsi anche l’ultima possibilità di sopravvivenza. Marnero, realtà musicale fra le più in forma in questa italica penisola nel primo freddo autunnale di questo 2010.
Dobbiamo star qui a presentarli i Marnero? credo di no, ormai chi già sapeva sa, chi non sa significa che non è poi così necessario che sappia.
Il primo full dei giovinastri di Bologna esce per una moltitudine di etichette indipendenti (Donna Bavosa, Sangue Dischi, Escape from Today, Trips und Traume, In Limine e Nojoy Records) DIY is the rule e non ci sono cazzi!
Cinque tracce che dichiarano la fine di questo mondo, cinque tracce che non ti lasciano un secondo, vena “neurosiana” inconfondibile, i Breach ascoltati e riascoltati fino al vomito, Botch e tutto l’Hardcore più puro che vi venga in mente è perfettamente rintracciabile nel disco che i Marnero ci regalano (in tutti i sensi visto che è scaricabile gratuitamente).
Riff veloci, irruenti, irriverenti, spezzati da una batteria che sa farsi cadenzata proprio quando meno te lo aspetti e ti toglie il fiato, non c’è tregua, ma sopratutto non c’è speranza, le parole hanno un peso per questi ragazzi e li si ringrazia di parecchio per questo perchè sono i testi di questo disco che ti parlano, ti spiegano, ti danno la direzione in questo mare dove solo l’isolamento e la desolazione sembrano essere protagonisti.
Grida acute di dolore, la stanchezza di sapere che le cose non sono come vogliono fartele vedere, parecchia frustrazione scivola via dai cinque pezzi del disco.
Cosa puoi dire di un gruppo che ti spiega in due strofe che è la vita stessa quell’eminenza grigia contro cui dover sbattere e contro cui combattere per poterne venirne fuori? Hanno ragione, hanno dannatamente ragione.
Hardcore spietato e sofferente, senza mezze misure, “solo il dolore conta” e te lo dicono loro prima che tu stesso possa capirlo da solo.
Poche volte ci si trova dinnanzi a dischi così pregni, ben ispirati e sopratutto così fuori tendenza ma tutto questo per i nostri fanciulli di Bologna è la normalità.
Poco altro vi resta da fare, se ancora non l’avete ascoltato questo disco scaricatelo (http://marnero.bandcamp.com) ma fidatevi che averlo originale questo bel vinile è una goduria, dall’artwork ai testi, dal vinile (che è sempre bello) al poster interno.


PostNero

martedì, ottobre 26, 2010

LUCERTULAS - The Brawl




Tracklist:
1. 8 hours
2. An old man
3. In this town
4. A wicked eel
5. Crowning
6. The boxer
7. The nun's pray
8. Carlo's nightmare
9. The widower




Tre anni non sono bastati per smaltire la sbornia di Tragol de Rova, e a questo giro i Lucertulas sono alle prese con i tragici postumi di quelle scorribande alcoliche, la sobrietà non è più un miraggio ma è ancora ben lontana dall’essere tangibile, il mal di testa è preponderante, e come in ogni fase di risacca che si rispetti, è difficile coniugare un’azione all’altra, pensare e agire contemporaneamente costa sforzi immani.
La sintesi di un dopo sbronza è anche la sintesi di the Brawl, che vede il trio nuovamente in azione, dopo mesi continui di esibizioni e collaborazioni (Christian dietro le pelli delle scorribande urbane dei Lago Morto) e il risultato è stato per i più inaspettato, spaccando in due le considerazioni di chi ripose più di una fiducia nel precedente disco.
In Tragol de Rova si poteva trovare la massima espressione dell’ebbrezza, suoni sregolati, slegati, scalmanati, tempi schizofrenici, grezzi, articolati, in una commistione letale tra caos e ordine se mai possa essercene una, dove le bordate noise andavano a braccetto con il blues e la psichedelica, con parentesi rumoriste ed efferatezze assortite, in the Brawl tutto questo non accade e pare che una cosa escluda l’altra, più che a braccetto si può dire che le componenti si diano la mano come a sostituirsi vicendevolmente. E’ questo il particolare che ha diviso, in un’analisi che proprio nella divisione dei compiti vede il suo fulcro.
Il suono dei Lucertulas si è fatto più fisico, più umano, è sceso da lande disperate e astratte per avvicinarsi a un approccio più umano, fatto di praticità e concretezza, aspetto che si può ben sentire con l’attacco isterico di 8 hours e continua a testa bassa fino a the Boxer, con un’attitudine nettamente più violenta rispetto al passato, dove le chitarre si fanno più ordinate e cercano meno l’arrotolarsi l’una sull’altra, dove ancora una volta il testamento portato è quello lasciato dai Cows.
Ma, come prima anticipato, è difficile nel dopo sbronza mettersi a fare due cose contemporaneamente, ed ecco che la parte più visionaria dei Lucertulas fa la sua comparsa all’improvviso e non molla la presa fino alla fine dell’album, the Boxer colpisce e colpisce duro, ma lo fa con una meccanicità che non era presente neanche in Tragol de Rova, cambia tempi e cambia metodica, ma ritorna a colpire sempre nello stesso punto con una serie di riff che divengono memorabili. The Nun’s Pray è il grido disperato di un’emicrania che stenta a diradarsi e si fa rumore sordo fino all’esplosione finale, sibilo nelle orecchie che prosegue fino alla pagina finale di the Widower, dove il suono quadrato e scarno fa venire in mente le parentesi più drammatiche degli Scratch Acid e l’alchimia dei Big Black, senza drum machine ma con la marcia in più del calore umano che si perde nel fondo del lavandino un finale conato.
The Brawl è un album che divide di per sé con la sua impostazione ed è questa una possibile chiave di approccio alla sua espressione musicale, ma il marchio Lucertulas continua a persistere grazie alla validità dei suoi contenuti e alle chitarre che fanno sempre sobbalzare dalla sedia; forse viene meno il carattere sorpresa, ma la qualità sopperisce anche questo. Non resta che vedere cosa faranno ora, se proseguire a mente lucida o accumulare nuovamente risacca. Intanto mandiamo giù un caffè e limone.

Neuros

martedì, ottobre 19, 2010

TO KILL - Antarctica



Tracklist:

1. I
2. The Flight of the Locust (feat. Greg Bennick)
3. Clouds
4. Paralysis
5. Legacy
6. Witness
7. Timeless
8. II
9. Antarctica
10. Sundown
11. Sparks
12. Heretic
13. III

Ascoltare “Antarctica” è come immergersi nelle gelide acque dell’Oceano del Sud... è li che Josh, il cantante dei romanissimi To Kill, si sta dirigendo insieme alla Steve Irwin, la nave nera di Sea Shepherd, per ora noi ci ritroviamo davanti all’ultimo capitolo di questo “ardecore” romano che più romano non si può.
Testamento, ultime volontà, chiamatele come volete, ma le 13 tracce di “Antarctica” sono il grido finale di una band che negli ultimi sei anni ha segnato e macinato le teste e le strade italiane, e non solo, urlando la disperazione e la rabbia più acuta.
Così ci lasciano i To Kill, chiudono baracca e burattini per poter seguire le loro ambizioni personali, e non se ne può fare una colpa a nessuno di loro, in fondo lo si sapeva da sempre che prima o poi questo sarebbe accaduto.
Andando a fondo di questo ultimo disco possiamo tranquillamente dire che non è un disco innovativo, ma che non voleva nemmeno esserlo, ma sicuramente è ispirato (i testi sono a dir poco sublimi e velenosamente schietti!!) un album veloce che corre via come una lama ghiacciata sulla faccia.
Tracce brevi, con pochissimo stacco una dall’altra pronte a spaccare la faccia dell’ascoltatore in appena due minuti.
Dolore, disperazione, rabbia e frustrazione, elementi tutti presenti da sempre nella storia dei To Kill ma che qui si fondono perfettamente rimanendo come incastrati nell’immenso iceberg che campeggia sulla copertina.
I temi cari ai nostri vengono proposti ancora una volta, l’ambientalismo e l’animalismo con particolare attenzione al fatto che se l’uomo non si da una scossa prima o poi renderà l’intera Terra un pianeta desolato e gelido come appunto l’Antartide.
La tristezza nel sapere che queste saranno le ultime parole scritte riguardo a questo gruppo non riesco a nasconderla, è anche grazie a loro che ho avuto modo di scoprire un mondo che ora è per chi vi scrive una vera e propria fede.
Rompiamo tutti gli schemi e ringraziamo di cuore i To Kill per quello che hanno fatto per l’hardcore italiano e per quello che faranno singolarmente a partire da qualche mese ad oggi. Mi permetto un ringraziamento e un incoraggiamento personale a Josh che si sta apprestando a partire con Sea Shepherd, rompetegli il culo ragazzi e grazie di cuore.

PostNero

www.myspace.com/tokill

sabato, ottobre 09, 2010

INFECTION CODE - Fine



Tracklist:

1. Varnish
2. All Colours
3. Grey
4. Collapse of the red side
5. Black Glue
6. Cupe Vampe
7. Painting My Life



Tornano a tre anni di distanza dal precedente "Intimacy" gli Infection Code, ed è decisamente un bentornato a giudicare dai sette pezzi di cui è composto "Fine".
Se con il precedente lavoro la band aveva puntato ad elevare il proprio sound al massimo effetto disturbante e soffocante possibile, sperimentando con suoni e produzione al fine di ottenere atmosfere acide e malsane, questa volta assistiamo ad una decisa seppur non radicale evoluzione, in quanto l'essenza artistica della band rimane comunque votata all'espressione di quel disagio esistenziale sempre più caratteristica dell'uomo moderno.
Quello che balza subito all'orecchio è la produzione curata in questo caso da Eraldo Bernocchi, noto musicista e produttore di caratura internazionale, mai un disco degli Infection Code aveva suonato così nitido, denso e potente. Un netto cambiamento se pensiamo ai suoni adottati per le produzioni precedenti e che si rivela scelta azzeccata nel far rendere al meglio le nuove composizioni, contraddistinte da atmosfere meno claustrofobiche ma quanto mai desolanti ed ombrose, caratterizzate da un sapiente uso dell'elettronica da una parte e da possenti muri/feedback di chitarra dall'altra.
Spetta a Varnish il compito d farci addentrare nelle poco confortanti tonalità dell'album, una sorta di ossessivo mantra industriale dai ritmi tribali, squarci di chitarra ed urla strazianti, incorniciato dall'effettistica di sottofondo, il cui pregevole uso sarà per altro caratteristica portante l'intera tracklist. All Colours è senza dubbio l'episodio maggiormente legato al passato, in bilico tra post-hardcore e noise rock, e si segnala quale perfetto singolo apripista data anche la durata contenuta.
Con Grey l'album inizia a rivelarsi in tutta la sua essenza, un lungo e desolante incidere, soundscapes e interpretazione vocale davvero suggestivi che rimandano alle psichedeliche e grigie trame dei Neurosis di The Eye of every storm.
Collpapse of the red side si apre con l'inquietanre incidere del basso e mette in luce una struttura assolutamente fantastica dal punto di vista dinamico, in bilico tra deflagrazioni, violenti substrati elettronici, possenti groove chitarristici e suggestivi rallentamenti.
In Black Glue torna a far capolino quel misto di noise e post-hardcore tipico della band, caratterizzato questa volta da continui stop e go, un feroce e pulsante basso distorto ed il granitico, dilaniante rifferama. C'è anche spazio per una nuova cover, esperimento a cui la band ci ha ormai abituato, ed in questa occasione il risultato ottenuto con Cupe Vampe dei nostrani C.S.I è realmente stupefacente; non era facile dare nuova linfa vitale al brano senza scadere nel ridicolo ma gli Infection Code con semplicità e passione superano l'esame a pieni voti.
Spetta a Painting My Life chiudere l'album, compito assolto nel modo migliore possibile grazie ad un incipit introspettivo e particolarmente suggestivo, suggerendo un'analisi interiore, ineluttabile e silenziosa riflessione sulla propria esistenza, una tensione pronta però ad esplodere dando libero sfogo a tutta la frustrazione accumulata...impossibile non rimanerne coinvolti e colpiti.
Fine rappresenta tutti i colori necessari per dipingere le nostre vite, sono gli Infection Code che al culmine delle proprie potenzialità hanno raggiunta la definitiva maturità, mostrando una rimarchevole consistenza espressiva ed artistica. Fatelo vostro, non ve ne pentirete.

-Edvard-

www.myspace.com/Infection Code

sabato, ottobre 02, 2010

THE SECRET - Solve Et Coagula



Tracklist:
1. Cross Builder
2. Death Alive
3. Double Slaughter
4. Where It Ends
5. Antitalian
6. Weatherman
7. Pleasure In Self Destruction
8. Eve Of The Last Day
9. Pursuit Of Discomfort
10. Bell Of Urgency
11. War Desire
12. 1968


Ci siamo finalmente, avevamo lasciato i triestini The Secret due anni orsono con l'ottimo "Disintoxication", album che segnò un vero e proprio nuovo inizio per la band. Successivamente i sempre maggiori consensi a livello internazionale portarono alla partecipazione ad importanti eventi live ed addirittura al loro primo ed intenso tour negli States.
A seguito di ciò la band non si è certo seduta anzi, questi risultati hanno spronato la band a tirar fuori il meglio di sè stessa gettandosi subito a capofitto nella scrittura di nuovo devastante materiale; in coincidenza di ciò dobbiamo segnalare la scomparsa dell'etichetta che rilasciò i due precedenti lavori, ovvero la Goodfellow Records, con la conseguente necessità per i The Secret di trovare un nuovo contratto.
Un promo contenente nuovo materiale venne fatto girare e fù così che un certo Greg Anderson notò il potenziale di quello che stava ascoltando mettendo senza tanti giri di parole sotto contratto la band per la Southern Lord Records. Nonostante la successiva ed improvvisa defezione dell'intera sezione ritmica i fondatori Marco Coslovich e Mike Bertoldini non si perdono d'anima e trovano due ottimi sostituti in Enrico Uliana (Amia Venera Landscape) al basso e Tommaso Corte (Slowmotion Apocalypse) alla batteria.

Ma veniano al disco in questione, registrato ai GodCity Studios di Kurt Balliou (Converge), "Solve Et Coagula" rivela subito una decisa evoluzione verso un sound più diretto ed ulteriormente estremizzato rispetto a "Disintoxication", senza tuttavia stravolgerlo. I pezzi non sono mai stati così potenti (merito ovviamente anche dell'impressionante resa sonora) ed efficaci, pochi fronzoli e tanta sostanza, ma anche grande maturità e cura negli arrangiamenti, si è lavorato di fino nel concentrarsi su strutture più semplici e lineari e nel farne risaltare ogni minima sfumatura.
Vi si ritrovano ancora maggiori influenze black metal rispetto al lavoro precedente, sia nelle vocals che nelle linee di chitarra e nelle atmosfere, rese ancor più marce e sulfuree; si notano anche influssi crust/grind e ritmiche meno contorte e spezzate, il tutto è votato al raggiungimento del massimo risultato attraverso un maggior flow e coesione tra i pezzi dell'album, creando un tutt'uno che dalla funerea opener Cross Builder sfocia nei successivi episodi fino alla conclusiva e terremotante 1968.
La prima parte dell'album è devastante, selvaggia e quantomai diretta, un vero pugno nello stomaco, ma forse il meglio a mio avviso lo si trova nella seconda, più varia e condita da interessanti rallentamenti pregni di oscure atmosfere, raggiungendo l'apice nella strumentale Bell of Urgency.

Al di là del fatto che i Converge, nonostante meno presenti che in passato. rimangano un punto fermo per il loro stile c'è da dire che i The Secret hanno ormai messo a punto un distintivo sound in perfetta sintesi tra diversi elementi, magari non innovativo in senso assoluto, ma decisamente riconoscibile e di caratura mondiale, il che non è affatto poco. "Solve et Coagula" non è solamente il loro miglior lavoro fino ad ora, ma anche e soprattutto una delle migliori uscite dell'annata in corso in senso assoluto.

-Edvard-

www.myapace.com/The Secret

mercoledì, settembre 29, 2010

RISE ABOVE DEAD - Human Disintegration



Tracklist:

01. Raven's Call Of Revenge
02. Persecuting The Samaritan
03. Existence
04. Scattered And Forgotten



"Human Disintegration", ep di 4 tracce disponibile nel solo formato vinile 12" (con digital download incluso) segna il debutto discografico di questa nuova e promettente realtà italiana in campo hardcore/metal.
Il quintetto dell'hinterland milanese viene da un anno di intensa attività live in tutta Europa accanto a svariate bands della scena hardcore/punk, e può contare inoltre sull'esperiemza maturata dai vari membri in passate incarnazioni musicali dalle influenze stilistiche più disparate, passando dall'hardcore più melodico al metalcore per arrivare al black e perfino all'indie.
Insomma pur trattandosi di un debut non si ha certo a che fare con musicisti alle prime armi, ed infatti l'ascolto di questi 4 brani mette in luce sin dai primi secondi una band dalle buone capacità tecniche ma soprattutto compositive.

Peculiarità dell'ep in questione sono trame sonore cupe, possenti ed incisive, valorizzate per altro dal buon lavoro in fase di produzione, in particolare per quanto riguarda le distorsioni di chitarra.
Hardcore vecchia scuola dalle tinte crust che si intreccia con tendenze più moderne (chiamiamole post) ed in cui non mancano stacchi sludge neri come la pece, a tal proposito citiamo in particolare "Persecuting The Samaritan", a mio avviso l'episodio più riuscito dell'intero ep insieme alla conclusiva "Scattered and Forgotten".

Da segnalare l'artwork a cura di Justin Bartlett (Sunn O))), Trap Them, Creature Skateboards) che incornicia il vinile e si sposa alla perfezione con il sound ed il mood della band.
Consigliamo dunque di prestare attenzione a questi ragazzi in quanto hanno certamente il potenziale per fare brillanti cose nel prossimo futuro.


-Edvard-

www.myspace.com/Rise Above Dead

martedì, luglio 27, 2010

UFOMAMMUT - Eve




Gli Ufomammut tornano dopo un disco enorme come “Idolum”, creando aspettative altissime e facendo sperare i fan nel nuovo disco italiano dell’anno ed invece? Invece ci si ritrova dinnanzi ad un lavoro poco chiaro.
“Eve” è un monotraccia di 45 minuti, diviso in cinque movimenti, che dovrebbe sviluppare un concept sulla donna, ma che alla fine non riesce a sfondare.
Soliti suoni granitici, curati in modo maniacale dai nostri piemontesi che, coadiuvati da Lorenzo Stecconi, registrano presso il Locomotore di Roma un disco che non ha idee.
Dispiace essere così critico nei confronti di una band che fino a quest’uscita è stata una delle preferite di chi sta scrivendo, però nel recensire un disco è doveroso andare oltre i gusti e le simpatie personali.
“Eve” è un'opera che non cammina, cinque movimenti che non si muovono, c’è della psichedelia, c’è del doom, del “post” ma tutto è già stato sentito e suonato, e purtroppo questa volta la band non è riuscita ad arrivare a soddisfare un palato esigente che chiede sempre una certa dose d’innovazione.
Sicuramente per chi non conosce la discografia del combo piemontese, “Eve” potrebbe rappresentare un gran bel disco, ma paragonandolo alle precedenti uscite ci si trova a dover riascoltare per 45 minuti sempre la solita idea di fondo, distorsioni devastanti, aperture schiacciasassi, suoni granitici, ma le idee dove sono finite?
C’è poco da fare, questa volta Urlo, Poia e Vita non riescono ad aggiungere qualcosa di nuovo alla loro opera, non c’è niente che suoni fresco in questo disco, è tutto già stato fatto; i più critici addirittura potrebbero arrivare a considerare “Eve” come una scusa per l'enorme e bellissimo lavoro di grafica che accompagna le varie edizioni, limitate e non, del disco.
Artwork ovviamente a firma Malleus, su cui obbiettivamente non possiamo dire nulla di male, e se la musica avesse solamente la metà del fascino che ha l’artwork forse questa recensione non sarebbe stata così critica ma purtroppo in questi 45 minuti di musica non c’è praticamente nulla di particolarmente accattivante.
Resta poi un mistero in quale modo questi cinque movimenti possano esprimere il concept che dietro l’album si cela, la donna.
Davvero un peccato, in quanto una delle uscite italiane più attese del 2010 si è invece rivelata come una delle più grosse delusioni dell'anno.


PostNero.

PS: recensione da integrare con Live-report