lunedì, dicembre 15, 2008

THREE SECOND KISS


15 anni di carriera e non sentirli: dopo la recensione dell'ottimo Long Distance, ritorno discografico per i Three Second Kiss abbiamo contattato Sergio, chitarrista della band, per fare il punto della situazione..



Ciao ragazzi, benvenuti su NeuroPrison. La vostra storia è lunga e articolata, con le radici all’inizio degli anni ’90. Cosa ricordate di quel periodo e cosa vi ha spinto a formare la band?

Gli anni ‘90 hanno fatto da brodo culturale alla nostra nascita. Retrospettivamente mi considero fortunato ad aver formato una band in quel decennio. Senza nostalgie ricordo che anche in assenza di strutture, del web e di un’adeguata cultura musicale autoctona, ogni band pensava di più a suonare, a costruire il proprio immaginario sonoro in modo del tutto personale e meno ad autocelebrarsi secondo canoni precostituiti, come avviene oggi. Noi eravamo tre tipi che venivano dalla provincia, con un desiderio molto forte di dare forma ad un proprio linguaggio.

La vostra carriera è costellata di incontri/collaborazioni importanti; cercando di tracciare un ordine cronologico, la prima figura che si incontra è David Lenci, al giorno d’oggi punto di riferimento per la scena indie italiana. “For Pain Relief”, vostro primo disco, fu una delle prime uscite prodotte da lui: come fu la vostra esperienza in studio di registrazione?


A ripensarci oggi è una roba naif che però rimane molto coerente con un percorso in cui l’amicizia gioca un ruolo fondamentale. David decise attorno al 1996 di registrare e produrre economicamente il nostro primo lavoro. Il suo era ancora un piccolo studio e sia lui che noi tre TSK eravamo agli inizi delle nostre storie. È partito tutto da una piccola stanza nella campagna marchigiana, tutti quanti senza esperienza ma con un desiderio fortissimo di fare mille cose. Oggi lui ha uno dei migliori studi Italiani, il Red House di Senigallia, noi abbiamo fatto 5 dischi, tour americani ed europei, insomma abbiamo accumulato insieme tanta strada partendo dal puro desiderio di fare musica. Pensa che proprio ieri, dopo 15 anni, eravamo ancora insieme in Calabria ed in Puglia per alcuni concerti, lui al mixer e noi sul palco.

Lenci sedette in cabina di regia anche nei due successivi dischi, ma da “Music Out Of Music” in poi al mixer sedette niente meno che Steve Albini; come entraste in contatto?

E’ stato grazie all’Indigena Booking di Catania, nella persona di Agostino e Giovanna degli Uzeda, che abbiamo conosciuto Steve e gli Shellac, con cui abbiamo condiviso il palco più volte in Italia e all’estero. In particolar modo nel 2002 Shellac ci invitarono al festival inglese “All Tomorrows Parties”, dopodiché chiedemmo a Steve di catturare i suoni di “Music out of Music”, ed andammo insieme a registrarlo in Francia.

Quali sono le differenze che avete notato nel metodo di lavoro dei due produttori?

La prima cosa che capisci è che non si tratta di produttori ma di veri e propri ingegneri del suono. Degli artigiani della musica che si prendono cura in modo naturale del tuo sound. Ovviamente con esperienze, storie, curriculum e metodi diversi, entrambi hanno esaltato il suono del gruppo senza intervenire artificiosamente nelle dinamiche della band.

Alla fine del 2005 Lorenzo Fortini lasciò il gruppo e venne sostituito da Sacha Tilotta, figlio di Agostino Tilotta e Giovanna, ovvero il nucleo degli Uzeda. Come mai la scelta cadde proprio su di lui?
Con lo stop di Lorenzo, al bivio se continuare come TSK o meno, io e Massimo abbiamo scelto di continuare con una persona amica, confidente, in sintonia. Un amico che oltre ad essere ovviamente un ottimo musicista, potesse comprendere e condividere gioie e miserie del suonare in un gruppo underground dai volumi ben sostenuti. E Sacha queste cose le conosce bene.

Arriviamo finalmente a Long Distance, quinto album in studio nella vostra carriera. La prima cosa che salta all’orecchio è una limatura ancora maggiore delle canzoni. Nonostante vi siano molti strati sonori il risultato è più snello, asciutto.


Volevamo andare proprio in quella direzione. Long Distance è per noi una sorta di nuovo primo disco, con i pregi e i difetti che questo inizio può avere. Freschezza, entusiasmo, incoscienza, maturità e rischio. Abbiamo voluto bypassare ogni discussione meta-musicale dovuta più che altro a quasi 15 anni di vita dei TSK tra elettricità, velocità, suoni taglienti e rumore. Ce ne siamo fregati e l’unico obiettivo che ci siamo prefissati era proprio di arrivare prima e con meno dispersione di note al nostro nucleo sonoro.

Anche la durata dell’album è inferiore rispetto al precedente, una scelta casuale o mirata?

Nessuna scelta mirata. Magari avremmo potuto starci un po’ su ancora, tirando fuori qualche altro brano, ma avevamo voglia di uscire allo scoperto con la nuova line-up. Reputiamo i 30/35 min. una durata perfetta per un certo tipo di suono penetrante.

A livello chitarristico emerge in maniera ancora più marcata un certo sapore blues, riletto ovviamente in chiave personale. Quanto lavoro sta dietro questa continua ricerca sonora e come si cerca di ottenere?

Il lavoro ovviamente c’è, ed è, come dire … quotidiano. Non in termini di esercizio, intendiamoci, ma in termini di riflessione continua su quello che vuoi comunicare. Il come arrivarci è un po’ difficile da spiegare. In fondo è come cercare di dire la stessa cosa ogni volta in modo diverso ed emotivamente nuovo.

Nella parte centrale dell’album si tira un po’ il fiato con dei componimenti un poco più leggeri come “V Season” e “Dead Horse Swimming”. Come è nata l’idea del canto corale all’inizio di questa canzone?

E’ nata casualmente in studio. Cercavamo una specie di contrappunto emotivo alla scansione iniziale della batteria, molto metronomica ed ossessiva, ed è spuntata l’idea di Massimo di fare un coro alla Beach Boys in camicia dark. Il risultato finale, un po’ ubriaco e fluttuante, davvero insolito per noi, ci è piaciuto molto ed ha dato un sapore diverso all’intro della canzone.

Sarà il colore dell’artwork o l’atmosfera che si respira all’interno del disco, sarà l’intro “lounge” di Tarues, ma pare che Long Distance abbia un carattere notturno, da luci basse e fumo in sala. E’un vaneggio di chi scrive o notate anche voi queste caratteristiche?


Hai ragione, nonostante noi ci abbiamo messo molta adrenalina dentro, alcune canzoni possiedono questa caratteristica riflessiva. E’ una nuova sfumatura e ne siamo felici. Felici soprattutto del fatto che ancora una volta “fare musica” sia una cosa che ci sorprende per il risultato alchemico che puoi ottenere da tre personalità molto differenti tra di loro.


La voce di Massimo è perennemente in bilico tra “rassegnata narrazione e isterico menefreghismo” per rendere l’idea. Cosa ha influenzato questo determinato approccio vocale?


Massimo ha questo approccio da sempre. La raggiunta maturità dei 40 anni probabilmente coincide oggi con una maggiore esposizione di questa vena istericamente confidenziale, un po’ al di là del bene e del male. Alla fine lui è una specie di story teller in chiave super minimale.

A cosa si riferisce la “lunga distanza” del titolo?

Cerchiamo sempre dei titoli che possano contemplare più interpretazioni.
Long Distance rispetta la nostra tradizione di titolo “aperto”. Ovviamente la lunga percorrenza è la nostra, con la tenacia e la caparbietà che si porta dietro. Insomma … per noi i maratoneti sono delle figure più visionarie ed interessanti dei centometristi. Hanno molte cose a cui pensare e da comunicare durante il tragitto, che oltre ad essere una corsa è un’esperienza quasi mistica.

Qual’è il ricordo più stravagante che affiora da tanti anni di carriera e musica dal vivo?

Non c’è per me un ricordo su tutti. C’è piuttosto un grappolo di sensazioni e ricordi affastellati. Strade, locali, facce, sapori ed atmosfere legate anche a posti lontani .. che so New Orleans per esempio, dove abbiamo suonato un po’ di anni fa. E’ come quando ti svegli improvvisamente dopo aver sognato senza ricordare bene cosa, ma con addosso un’atmosfera ben precisa, che non ti abbandona.


Quale è secondo voi di questi tempi la salute della musica italiana, e in particolare la scena “alternative”?


Non ho quasi più la testa per queste considerazioni e soprattutto non riesco più a scindere tra confini nazionali ed estero. Quando sei adolescente non ci pensi, te ne freghi e quando sei più maturo ti senti al di là del quesito. Mi pare che la scena alternativa - italiana e non - tranne alcune illustri eccezioni, non sia più tale. Tutti si comportano allo stesso modo, grandi e piccoli, musicisti e discografici. Non ci sono più due linguaggi, non c’è più lo standard e l’alternativa a questo standard. Manca il desiderio e l’omologazione è davvero ad un passo: se le nuove generazioni non ne sono coscienti non ci sarà ricambio ma solo restaurazione e tanta noia. Una volta gli adolescenti che mettevano su una band erano realmente dei diversi, con delle storie diverse ed interessanti da raccontare. Ora sono belli, sani, ben vestiti, ottimamente pettinati o spettinati ad arte, degli attori pronti per il set. Vatti a guardare le foto che so ... dei primi Gun Club, dei Fall o degli Husker Du. La differenza sta tutta lì.

Bene, siamo quasi alla fine, quali sono i vostri progetti nell’immediato futuro?

Concerti in ordine sparso per l’Italia ed un Tour della costa Est degli Stati Uniti prima dell’estate. Nel frattempo, se saremo bravi, metteremo giù anche qualche nuovo pezzo.

Grazie infinite per la disponibilità ragazzi, a voi l’onere di chiudere.

Be’, non ho intenzione di chiudere, apro, anzi, apriamo, apriamo tutti …


Neuros

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