Miglior disco (top 10)
1. CULT OF LUNA - Eternal kingdom
2. HAVE A NICE LIFE - Deathconsciousness
3. GENGHIS TRON - Board up the house
4. EARTH - The bees made honey in the lion's skull
5. UFOMAMMUT - Idolum
6. MOGWAI - The hawk is hawling
7. PORTISHEAD - Third
8. MESHUGGAH - oBzen
9. SHEARWATER - Rook
10. ASCEND - Ample fire within
Miglior disco italiano (top 5)
1. UFOMAMMUT - Idolum
2. DEAD ELEPHANT - Lowest shared descent
3. MORKOBOT - Morto
4. BACHI DA PIETRA - Tarlo terzo
5. THE SECRET - Disintoxication
Miglior EP (top 5)
1. DEATHSPELL OMEGA/S.V.E.S.T. - Veritas Diaboli Manet in Æeternum: Chaining the Katechon
2. LA QUIETE - S/t
3. CURRENT 93 - Dead canal blues
4. BURIED AT SEA - Ghost
5. RED SPAROWES - Aphorisms
Miglior canzone (top 3)
1. HAVE A NICE LIFE - Bloodhail
2. CULT OF LUNA - Ghost trail
3. LATE OF THE PIER - Space and the woods
Miglior disco d'esordio (top3)
1. HAVE A NICE LIFE - Deathconsciousness
2. LATE OF THE PIER - Fantasy black channel
3. DEAD ELEPHANT - Lowest shared descent
Miglior copertina (top3)
1. A STORM OF LIGHT - And We Wept The Black Ocean Within
2. CULT OF LUNA - Eternal Kingdom
3. UFOMAMMUT - Idolum
Delusione dell'anno (top 3)
1. OPETH - Watershed
2. SIGUR ROS - Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust
3. PORTISHEAD - Third
Concerto dell'anno
NEUROSIS + A STORM OF LIGHT + THE OCEAN @ Mamamia, Senigallia, 23/8/2008
martedì, dicembre 30, 2008
lunedì, dicembre 22, 2008
ONE STARVING DAY
Dopo un debutto folgorante come Brokeng Wings Lead Arms to the Sun, stanno per tornare sulla lunga distanza gli One Starving Day; abbiamo contattato Pasquale per fare il punto della situazione, il quale ci propone anche interessanti anticipazioni riguardo al prossimo disco : Atlas Coelestis.
Ciao ragazzi! Nonostante il vostro primo album risalga a più di due anni fa la storia della band è abbastanza datata, quindi presentate ai nostri lettori come è nato questo progetto.
(Pasquale) Il progetto nasce nel 1997. Per alcuni anni avevo fatto parte di alcune band di matrice HC, tutte con certe velleità innovative. Ciononostante ero sempre profondamente insoddisfatto del risultato finale, così decisi di avviare un progetto tutto mio per realizzare ciò che avevo in mente. Il gruppo è stato poi formato aggregando persone che in termini di attitudine e ascolti potessero essere vicini alla mia. Tra questi ovviamente alcuni dei miei più cari amici dell'epoca (Francesco, Andrea e Marco) e mio fratello (Dario). Il processo di evoluzione è stato lento, ma ad oggi credo che abbiamo sviluppato un certo modus operandi che caratterizza lo stile del gruppo.
“Broken Wings..” è stato pubblicato per Planaria Recordings (Extra Life, Dead Meadow, Shining Path tra gli altri). Come siete entrati in contatto con la label e come vi siete trovati con questa?
Dopo aver registrato il nostro primo album, abbiamo spedito ill promo ad alcune etichette. La Planaria ci ha subito affascinati perché si presentava come un'etichetta eclettica, che non seguiva nessun principio di tipo aziendalista. Una volta entrati in contatto con Nick (Pimentel, il titolare della Planaria) abbiamo riscontrato una certa affinità in termini di attitudine. Nessun compromesso, produrre solo ciò che piace senza pensare a quante copie potrà vendere il disco e, soprattutto, Nick si è dimostrato una persona alla mano, mossa solo dalla passione per la musica. Non è il classico tipo a cui bisogna leccare il culo per farti produrre un cd. Ovviamente non tutto è andato liscio come l'olio dato che ci ha fatto aspettare quasi due anni prima che il disco uscisse. In fin dei conti, a posteriori, siamo contenti di aver pubblicato il primo disco per la Planaria.
Vi è stata poi una versione in vinile del disco sotto KNVBI Records. Amore per questo genere di formato o cos’altro?Come mai questa scelta?
Credo che chiunque suoni musica rock abbia un amore atavico per tale formato, che è praticamente il supporto per eccellenza della musica che suoniamo ed ascoltiamo. La KNVBI per certi versi è assimilabile alla Planaria. Shawn (il titolare dell'etichetta) ci ha dato carta bianca e non ci ha posto alcun limite in termini di budget per la realizzazione del vinile. Abbiamo deciso di aggiungere due brani rispetto alla versione in cd e credo che il risultato finale si stato davvero eccellente, l'artwork rende benissimo in relazione al packaging del doppio lp ed il vinile argento e nero è davvero molto bello. Tra l'altro la risposta in termini di vendite è stata ottima, credo infatti che tra non molto sarà sold out .
Alla luce della domanda precedente, si può notare come il packaging sia davvero curato e l’aspetto visuale emerge prepotentemente anche dal cd, dal vostro sito, dalla pagina myspace. Quanta importanza ha per voi questa parte del lavoro?
Ovviamente tantissima. Credo che la componente visuale sia parte integrante della musica perché, se concepita con cura e perizia, è in grado di aggiungere potenza comunicativa ad un disco.
Le vostre origini sono nell’hardcore, ma il vostro suono si è evoluto, inglobando frammenti post-rock, folk e doom. Come riuscite a convogliare tutte queste influenze nel vostro suono senza snaturarlo, e quanto c’è ancora dell’originaria passione hc?
Io credo che non c'è alcun pericolo di snaturare il nostro suono in quanto la sua natura è proprio la somma di tutte queste influenze che combattono tra di loro. Il prevalere di alcuni elementi rispetto ad altri cambia e cambierà da disco a disco ma il tutto avviene in maniera totalmente naturale e spontanea. In più credo che i generi da te citati siano sicuramente presenti nel nostro suono, ma non sono gli unici. Credo ci siano anche influenze cosmiche , prog e kraut, e sebbene tali elementi siano un po' in secondo piano in BWLAttS saranno molto più presenti e distinguibili nel prossimo disco (che abbiamo già registrato ormai più di un anno fa).
Per ciò che concerne l'originaria passione HC, beh quella non passa mai. Io credo che più che una forma espressiva, essa risieda maggiormente nell'attitudine e da questo punto di vista cedo che sin dalle origini non sia cambiato nulla.
Fate Drainer presenta numerosi rimandi al suono settantiano? E’ questo una vostra influenza?
Sicuramente. La maggior parte dei membri della band è composta da onnivori musicali. Io ascolto di tutto e sicuramente se penso agli anni '70 mi vengono in mente band che definire gloriose è quasi riduttivo (Tangerine Dream, Ash Ra Tempel, Heldon e Pink Floyd tra gli altri). Queste band, come tante altre a seguire negli anni, sono state una vera e propria scuola per alcuni di noi.
Silver Star Domain è la traccia di chiusura dell’album e si distacca abbastanza da quanto proposto nelle precedenti canzoni. Come è nata e cosa vi siete ispirati per comporla?
L'idea era quella di chiudere il disco con un brano che si contrapponesse a quelli precedenti. Anche il titolo è in completa antitesi a quello della canzone che apre il disco (Black Star Aeon), L'argento è l'elemento purificatore e il suo dominio è come una redenzione contrapposta all'oscurità assoluta ed estremamente longeva a cui fa riferimento Black Star Aeon.
In generale il mood del disco è crepuscolare..
Certamente. Diciamo che musicalmente il disco è costruito su semplici pattern ridondanti che cercano di accumulare una certa tensione emotiva che deflagra nelle aperture più propriamente rock delle nostre canzoni. Se ripenso a tutte le band che maggiormente ho apprezzato nella mia vita, posso constatare che il tratto che accomuna tutte queste è proprio questa vena crepuscolare e decadente di cui parli. Credo quindi che per certi questa è rimasta come influenza principale del mood di tutti i brani che componiamo.
Ormai tutti sanno dell’origine del vostro nome, ovvero la poesia “E’ ora famelica” di Ungaretti. Quanto è importante la poesia a livello personale e quanto influisce nell’esito finale dei componimenti?
Io sono appassionato di poesia. Sono sempre stato affascinato dalla similitudine tra una canzone ed una poesia. Entrambe possono essere riascoltate/rilette in momenti diversi e darti sensazioni molto diverse in base al tuo stato d'animo, proprio la loro capacità di essere legate al momento e all'emotività mi ha sempre affascinato. Ovviamente ci tengo a precisare che non ho mai pensato ai miei testi come a delle poesie in quanto i primi sono solo delle fotografie di emozioni e pensieri, mentre le seconde richiedono una disciplina ed un livello di elaborazione che io non credo di avere.
Sul vostro sito, sotto la biografia vi è un trafiletto riguardante il Logo della band. Potete spiegarcene il significato?
Onestamente quel logo risale ai primissimi periodi della band. Lo usammo nella press sheet del nostro primo e unico demo, ma poi con l'evoluzione della band (e soprattutto con la crescita delle persone in essa) ha perso di significato. E' tuttora presente sul sito perché ci ricorda da dove veniamo e chi eravamo, in modo da capire meglio chi siamo oggi. Credo molto che si cresca sommando le proprie identità che cambiano nel corso degli anni piuttosto che cancellare, rinnegare e ricominciare da capo ogni volta.
Il vostro secondo album doveva essere registrato nella prima metà del 2007 ma poi non si è saputo più niente; cosa è successo al riguardo?
In effetti abbiamo registrato e mixato il nostro secondo album (Atlas Coelestis) con David Lenci al Redhouse studio in due tornate nella primavera/estate del 2007. Usciti dallo studio ci siamo guardati un po' intorno con la nostra proverbiale flemma. Ci sono stati vari tira e molla con diverse etichette (di cui alcune davvero importanti), ma poi per vari motivi non si è riusciti a mettere su la cosa. Adesso (dopo ormai più di un anno e mezzo) sembra che le cose si stiano sistemando,. Il lavoro verrà masterizzato a breve presso il Chicago Mastering Service (Bob Weston e Jason Ward) e abbiamo degli accordi di massima con alcune etichette per ciò che concerne la release digitale ed il vinile. Il tutto però è ancora in evoluzione e magari speriamo di riuscire ad inserire qualche altro partner per la realizzazione del cd.
Potete darci qualche anticipazione al riguardo e soprattutto verso coordinate sonore intraprese?
Ci sono due medley sul nostro myspace che riassumono un po' le coordinate sonore del nuovo disco. Tutto sommato direi che i pezzi sono più articolati, e la componente elettronica è più presente oltre che più variegata. In Broken Wings Lead Arms to the Sun l'elettronica era tutta rigorosamente vintage, per Atlas Coelestis oltre ad ampliare l'arsenale di macchine vintage ne abbiamo anche adoperate altre più moderne (anche se sempre rigorosamente analogiche). Abbiamo poi mantenuto la presenza del violoncello (suonato stavolta da Andy Nice, che ci è sembrato subito la persona adatta anche i virtù delle sue passate collaborazioni con i Cradle of Filth) e aggiunto l'harmonium in quattro brani e il sassofono in uno. Per ciò che concerne la componente più propriamente rock del gruppo devo dire che stavolta il maggior tempo a disposizione in studio ha dato i suoi frutti, nel senso che i suoni e la resa generale sono nettamente migliorati. Più di ogni altra cosa però credo che il miglioramento decisivo stia nella scrittura e nell'arrangiamento dei pezzi. Sostanzialmente Atlas Coelestis è a mio avviso un album più maturo e molto più “complesso” del precedente.
Siete originari di Napoli; come è la realtà musicale della zona? E per quanto riguarda il supporto alle band?
In tutta onestà da quando alcuni centri sociali hanno chiuso (e parlo di tanti tanti anni fa ormai) la situazione è molto grigia. Per di più non credo che in città ci siano gruppi di valore superiore alla media. Di tutto questo però a noi non è che interessi più di tanto dato che abbiamo sempre avuto poco in comune con le realtà musicali della nostra città. Noi abbiamo un'attitudine completamente diversa rispetto alle persone che girano negli ambienti musicali napoletani. Rispettiamo tutti, ma abbiamo una serie di codici e valori che per noi sono tutto, nella musica come nella vita in generale. Se le cose si possono fare alle nostre condizioni va bene altrimenti passiamo la mano, siamo sempre stati autosufficienti e abbiamo sempre fatto tutto da soli, non abbiamo bisogno di nessun altro che noi stessi per portare avanti il nostro progetto, fino ad ora in città non abbiamo mai incontrato persone con un certo tipo di attitudine e quindi abbiamo sempre preferito restare ai margini di certe realtà che benché stilisticamente possano sembrare a noi affini sono lontane anni luce in termini di attitudine.
Bene ragazzi, è tutto per ora!Grazie mille per la disponibilità, a voi la chiusura dell’intervista.
Vorremmo ringraziarvi per questa intervista e per l'interesse mostrato nei nostri confronti. E' grazie a persone come voi che la musica è viva; la passione per la musica di persone come voi la rende viva. Grazie Simone e grazie a tutti gli altri ragazzi di NeuroPrison.
Neuros
mercoledì, dicembre 17, 2008
ZIPPO - The Road to Knowledge
Line-up:
Dave - Vocals
Sergente - Guitar
Devis - Guitar
Stonino - Bass
Ferico - Drums
Tracklist:
1. Don Juan’s Words
2. El Sitio
3. The Road To Knowledge
4. He is Outside Us
5. Chihuahua Valley
6. Ask Yourself A Question
7. Lizards Can’t Be Wrong
8. El Enyerbado
9. The Smoke Of Diviners
10. Reality Is What I Feel
11. Mitote
12. Three Silver Crows
13. Diablera
Quattro anni di attività ma un curriculum già di tutto rispetto per gli Zippo, giovane combo pescarese che torna quest’anno con la pubblicazione del loro secondo disco “The Road to Knowledge”. L’ensemble pescarese è riuscito a farsi un nome nella scena underground grazie a un’estenuante attività live, che li ha portati di recente a calcare anche i palchi europei, dove il riscontro di pubblico è stato ottimo, sicuramente una marcia in più per proseguire il percorso musicale che mai come ora sembrava ricco di diramazioni.
Sì, perché se nel precedente “Ode to Maximum” gli Zippo lasciavano intrevedere germogli freschi all’interno delle tipiche sonorità stoner, forti di una line-up rinnovata, con l’ingresso di Devis (axe-man dei Sothis) e del contratto con Subsound Records, il combo è riuscito con il nuovo disco a superarsi, con un lavoro che presenta novità a profusione, inserite in un contesto lirico di sicuro spessore : “The Teachings of Don Juan”. E’ proprio intorno al pensiero di Carlos Castaneda che “The Road to Knowledge” si muove, traendo nuova linfa per i componimenti, che si fanno più ricercati e “progressivi”, distanti dalla tradizione del genere, proprio come le opere dello scrittore/antropologo peruviano.
Dopo l’evocativa intro Don Juan’s Word tocca ad El Sitio accogliere l’ascoltatore, una delle prime canzoni a essere presentate dal vivo, efficace mix di sonorità desertiche e passione latino-americana a là Totimoshi. Gli Zippo però non si accontentano e sanno come calcare il piede sull’acceleratore, come testimoniato in Chiuahua Valley ed El Enyerbado, trascinate dalla voce potente di Dave in un vortice sonoro che lambisce tutte quelle entità musicali gravitanti intorno allo stoner, i semimali Melvins in primis, quelli di Stoner Witch e Houdini, ma anche i chiaro-scuri dei Mastodon.
Placare la tensione che emerge dalle note è onere di intermezzi acustici come He Is Outside Us e Reality Is What I Feel, mentre al centro del disco si erige l’evocativa Lizards Can't Be Wrong, salmodia sciamanica che si alza al cielo notturno.
La summa dei progressi avvenuti si trova però nelle lunghe e articolate The Smoke of Diviners e Three Silver Crows, che presentano tutte le facce della maschera Zippo, alternando parentesi acustiche, psichedelia di nuovo millennio e roboanti cavalcate elettriche, in un’improbabile mix tra Kyuss e Pelican. Merita poi una menzione particolare Ask Yourself a Question, dove pare stabilirsi il giusto equilibrio tra le forze in gioco, con la ricercata alternanza tra arpeggi e riff da parte di Sergente, il basso pulsante di Stonino e l’appassionata prova di Dave.
Gli Zippo non fanno altro che testimoniare la salute che in Italia vivono queste sonorità, con un album di sicuro valore, inficiato un poco dal minutaggio totale che a volte pare disperdere quanto di valido fatto; ciò non scalfisce comunque il talento della band, che sicuramente in futuro saprà far tesoro anche di questa esperienza, e noi attendiamo fiduciosi.
Neuros
Zippo@Myspace
lunedì, dicembre 15, 2008
THREE SECOND KISS
15 anni di carriera e non sentirli: dopo la recensione dell'ottimo Long Distance, ritorno discografico per i Three Second Kiss abbiamo contattato Sergio, chitarrista della band, per fare il punto della situazione..
Ciao ragazzi, benvenuti su NeuroPrison. La vostra storia è lunga e articolata, con le radici all’inizio degli anni ’90. Cosa ricordate di quel periodo e cosa vi ha spinto a formare la band?
Gli anni ‘90 hanno fatto da brodo culturale alla nostra nascita. Retrospettivamente mi considero fortunato ad aver formato una band in quel decennio. Senza nostalgie ricordo che anche in assenza di strutture, del web e di un’adeguata cultura musicale autoctona, ogni band pensava di più a suonare, a costruire il proprio immaginario sonoro in modo del tutto personale e meno ad autocelebrarsi secondo canoni precostituiti, come avviene oggi. Noi eravamo tre tipi che venivano dalla provincia, con un desiderio molto forte di dare forma ad un proprio linguaggio.
La vostra carriera è costellata di incontri/collaborazioni importanti; cercando di tracciare un ordine cronologico, la prima figura che si incontra è David Lenci, al giorno d’oggi punto di riferimento per la scena indie italiana. “For Pain Relief”, vostro primo disco, fu una delle prime uscite prodotte da lui: come fu la vostra esperienza in studio di registrazione?
A ripensarci oggi è una roba naif che però rimane molto coerente con un percorso in cui l’amicizia gioca un ruolo fondamentale. David decise attorno al 1996 di registrare e produrre economicamente il nostro primo lavoro. Il suo era ancora un piccolo studio e sia lui che noi tre TSK eravamo agli inizi delle nostre storie. È partito tutto da una piccola stanza nella campagna marchigiana, tutti quanti senza esperienza ma con un desiderio fortissimo di fare mille cose. Oggi lui ha uno dei migliori studi Italiani, il Red House di Senigallia, noi abbiamo fatto 5 dischi, tour americani ed europei, insomma abbiamo accumulato insieme tanta strada partendo dal puro desiderio di fare musica. Pensa che proprio ieri, dopo 15 anni, eravamo ancora insieme in Calabria ed in Puglia per alcuni concerti, lui al mixer e noi sul palco.
Lenci sedette in cabina di regia anche nei due successivi dischi, ma da “Music Out Of Music” in poi al mixer sedette niente meno che Steve Albini; come entraste in contatto?
E’ stato grazie all’Indigena Booking di Catania, nella persona di Agostino e Giovanna degli Uzeda, che abbiamo conosciuto Steve e gli Shellac, con cui abbiamo condiviso il palco più volte in Italia e all’estero. In particolar modo nel 2002 Shellac ci invitarono al festival inglese “All Tomorrows Parties”, dopodiché chiedemmo a Steve di catturare i suoni di “Music out of Music”, ed andammo insieme a registrarlo in Francia.
Quali sono le differenze che avete notato nel metodo di lavoro dei due produttori?
La prima cosa che capisci è che non si tratta di produttori ma di veri e propri ingegneri del suono. Degli artigiani della musica che si prendono cura in modo naturale del tuo sound. Ovviamente con esperienze, storie, curriculum e metodi diversi, entrambi hanno esaltato il suono del gruppo senza intervenire artificiosamente nelle dinamiche della band.
Alla fine del 2005 Lorenzo Fortini lasciò il gruppo e venne sostituito da Sacha Tilotta, figlio di Agostino Tilotta e Giovanna, ovvero il nucleo degli Uzeda. Come mai la scelta cadde proprio su di lui?
Con lo stop di Lorenzo, al bivio se continuare come TSK o meno, io e Massimo abbiamo scelto di continuare con una persona amica, confidente, in sintonia. Un amico che oltre ad essere ovviamente un ottimo musicista, potesse comprendere e condividere gioie e miserie del suonare in un gruppo underground dai volumi ben sostenuti. E Sacha queste cose le conosce bene.
Arriviamo finalmente a Long Distance, quinto album in studio nella vostra carriera. La prima cosa che salta all’orecchio è una limatura ancora maggiore delle canzoni. Nonostante vi siano molti strati sonori il risultato è più snello, asciutto.
Volevamo andare proprio in quella direzione. Long Distance è per noi una sorta di nuovo primo disco, con i pregi e i difetti che questo inizio può avere. Freschezza, entusiasmo, incoscienza, maturità e rischio. Abbiamo voluto bypassare ogni discussione meta-musicale dovuta più che altro a quasi 15 anni di vita dei TSK tra elettricità, velocità, suoni taglienti e rumore. Ce ne siamo fregati e l’unico obiettivo che ci siamo prefissati era proprio di arrivare prima e con meno dispersione di note al nostro nucleo sonoro.
Anche la durata dell’album è inferiore rispetto al precedente, una scelta casuale o mirata?
Nessuna scelta mirata. Magari avremmo potuto starci un po’ su ancora, tirando fuori qualche altro brano, ma avevamo voglia di uscire allo scoperto con la nuova line-up. Reputiamo i 30/35 min. una durata perfetta per un certo tipo di suono penetrante.
A livello chitarristico emerge in maniera ancora più marcata un certo sapore blues, riletto ovviamente in chiave personale. Quanto lavoro sta dietro questa continua ricerca sonora e come si cerca di ottenere?
Il lavoro ovviamente c’è, ed è, come dire … quotidiano. Non in termini di esercizio, intendiamoci, ma in termini di riflessione continua su quello che vuoi comunicare. Il come arrivarci è un po’ difficile da spiegare. In fondo è come cercare di dire la stessa cosa ogni volta in modo diverso ed emotivamente nuovo.
Nella parte centrale dell’album si tira un po’ il fiato con dei componimenti un poco più leggeri come “V Season” e “Dead Horse Swimming”. Come è nata l’idea del canto corale all’inizio di questa canzone?
E’ nata casualmente in studio. Cercavamo una specie di contrappunto emotivo alla scansione iniziale della batteria, molto metronomica ed ossessiva, ed è spuntata l’idea di Massimo di fare un coro alla Beach Boys in camicia dark. Il risultato finale, un po’ ubriaco e fluttuante, davvero insolito per noi, ci è piaciuto molto ed ha dato un sapore diverso all’intro della canzone.
Sarà il colore dell’artwork o l’atmosfera che si respira all’interno del disco, sarà l’intro “lounge” di Tarues, ma pare che Long Distance abbia un carattere notturno, da luci basse e fumo in sala. E’un vaneggio di chi scrive o notate anche voi queste caratteristiche?
Hai ragione, nonostante noi ci abbiamo messo molta adrenalina dentro, alcune canzoni possiedono questa caratteristica riflessiva. E’ una nuova sfumatura e ne siamo felici. Felici soprattutto del fatto che ancora una volta “fare musica” sia una cosa che ci sorprende per il risultato alchemico che puoi ottenere da tre personalità molto differenti tra di loro.
La voce di Massimo è perennemente in bilico tra “rassegnata narrazione e isterico menefreghismo” per rendere l’idea. Cosa ha influenzato questo determinato approccio vocale?
Massimo ha questo approccio da sempre. La raggiunta maturità dei 40 anni probabilmente coincide oggi con una maggiore esposizione di questa vena istericamente confidenziale, un po’ al di là del bene e del male. Alla fine lui è una specie di story teller in chiave super minimale.
A cosa si riferisce la “lunga distanza” del titolo?
Cerchiamo sempre dei titoli che possano contemplare più interpretazioni.
Long Distance rispetta la nostra tradizione di titolo “aperto”. Ovviamente la lunga percorrenza è la nostra, con la tenacia e la caparbietà che si porta dietro. Insomma … per noi i maratoneti sono delle figure più visionarie ed interessanti dei centometristi. Hanno molte cose a cui pensare e da comunicare durante il tragitto, che oltre ad essere una corsa è un’esperienza quasi mistica.
Qual’è il ricordo più stravagante che affiora da tanti anni di carriera e musica dal vivo?
Non c’è per me un ricordo su tutti. C’è piuttosto un grappolo di sensazioni e ricordi affastellati. Strade, locali, facce, sapori ed atmosfere legate anche a posti lontani .. che so New Orleans per esempio, dove abbiamo suonato un po’ di anni fa. E’ come quando ti svegli improvvisamente dopo aver sognato senza ricordare bene cosa, ma con addosso un’atmosfera ben precisa, che non ti abbandona.
Quale è secondo voi di questi tempi la salute della musica italiana, e in particolare la scena “alternative”?
Non ho quasi più la testa per queste considerazioni e soprattutto non riesco più a scindere tra confini nazionali ed estero. Quando sei adolescente non ci pensi, te ne freghi e quando sei più maturo ti senti al di là del quesito. Mi pare che la scena alternativa - italiana e non - tranne alcune illustri eccezioni, non sia più tale. Tutti si comportano allo stesso modo, grandi e piccoli, musicisti e discografici. Non ci sono più due linguaggi, non c’è più lo standard e l’alternativa a questo standard. Manca il desiderio e l’omologazione è davvero ad un passo: se le nuove generazioni non ne sono coscienti non ci sarà ricambio ma solo restaurazione e tanta noia. Una volta gli adolescenti che mettevano su una band erano realmente dei diversi, con delle storie diverse ed interessanti da raccontare. Ora sono belli, sani, ben vestiti, ottimamente pettinati o spettinati ad arte, degli attori pronti per il set. Vatti a guardare le foto che so ... dei primi Gun Club, dei Fall o degli Husker Du. La differenza sta tutta lì.
Bene, siamo quasi alla fine, quali sono i vostri progetti nell’immediato futuro?
Concerti in ordine sparso per l’Italia ed un Tour della costa Est degli Stati Uniti prima dell’estate. Nel frattempo, se saremo bravi, metteremo giù anche qualche nuovo pezzo.
Grazie infinite per la disponibilità ragazzi, a voi l’onere di chiudere.
Be’, non ho intenzione di chiudere, apro, anzi, apriamo, apriamo tutti …
Neuros
giovedì, dicembre 11, 2008
Gemine:Muse 2008 - "WALLS AS OPEN DOORS"
20 dicembre 2008 - Palazzo Cittanova, Cremona - ore 21.45
a cura di Marco Verdi
scritto da Zero Wait EnSemble
[con membri di: Zero Wait State, Xu(e), Big Eyes Trance]
suonato da:
Omar Martani (chitarra elettrica, chitarra acustica, tastiere, effetti)
Giuseppe Toninelli (laptop / elettronica)
Nicola Fornasari (laptop / elettronica)
Andrea Poli (laptop / elettronica)
Giovanni Prarolo (contrabbasso, basso elettrico)
Roberto Polledri (chitarra elettrica)
Stefano Uggeri (batteria)
Matteo Nodari (pianoforte)
Alberto Napoli (violino)
Benedetta Zucconi (viola)
Undici mesi dalle prime idee di progetto all'opera finale. E' un percorso articolato quello che ci condurrà la sera del 20 dicembre nella sala maggiore del Palazzo Cittanova. Timori ed entusiasmi si sono susseguiti senza sosta durante le infinite fasi di creazione, composizione e rifinitura di una performance che da subito non si è voluta limitare alla sfera musicale, proponendo una lettura esaustiva dei temi affrontati attraverso i linguaggi multimediali. Musica, dunque, con il supporto imprescindibile di elementi grafici ricorrenti organizzati in una video-installazione di forte impatto e caratterizzazione emotiva.
Contrapposizione, compenetrazione, scontro, reciprocità: sono le dicotomie stravolte su cui si reggono i concetti stessi di arte e musica. Rumore e melodia, antico e moderno, acustico ed elettronico, ovvero le suggestioni di un dialogo tra elementi che abbiamo voluto approfondire inserendoci nel contesto artistico di Gemine:Muse. Pretesto inevitabile, la parete calata nella città: il fascino medievale di Cremona e il suo binomio vecchio/nuovo, il simbolico Palazzo Cittanova con la sua storia di indipendenza alternativa al potere convenzionale. “La Parete Desnuda” è stata da subito spogliata del suo significato meramente fisico e trasposta nella dimensione impalpabile e sottile dell'interiorità. Una parete divisoria; l'intuizione e la visione moderna del concetto di città come luogo confinato da molti accessi senza nessuna uscita, l'idea plasmata sulla limitazione mentale dell'auto-confinamento (protezione o differenziazione?).
Tre atti, distinti ed equamente distribuiti in un'ora e trenta di durata complessiva. Tre letture differenti identificate dal titolo, emblematico, dell'opera: “Walls As Open Doors”. Tre approcci stilistici che guerreggiano in quello scontro tra opposti capace di far scaturire le emozioni più profonde. La materia è fornita dai linguaggi artistici marginali e d'avanguardia dell'ultimo mezzo secolo: la musica elettronica, il concretismo, l'arte digitale; e poi, gli spartiti classici e l'estetica jazz, rivisitati alla luce dell'eredità penetrante dell'ultimo post-rock. Contaminazioni reciproche attraversate da variazioni e crescendo circolari, mediante un linguaggio fortemente ibrido ed eterogeneo, diviso nell'utilizzo di elementi classici (pianoforte, contrabbasso, archi, chitarra acustica) e strumenti più tipicamente rock (batteria, basso e chitarra elettrica), ma inaspettatamente sostenuto dal minimalismo elettronico d'avanguardia. Tappeti di glitch corrotti da oscure fascinazioni post-industriali, forme pure alterate da inserti ambientali e rumoristici, fantasie immerse in arpeggi liquidi e remoti, rincorsi da trame avant-jazz o armonizzati da un pianoforte etereo.
L'orchestra è in realtà un'ensemble atipica costituita da una formazione fissa di quattro musicisti con interventi di supporto. Ma la performance non vuole essere a tutti i costi inaccessibile, difficile o limitante: confidiamo bensì che qualunque orecchio amante della (buona) musica possa trovare elementi di riflessione e vivo interesse.
(Marco Verdi)
martedì, dicembre 09, 2008
LLEROY - Juice Of Bimbo
Anno: 2008
Label: Sweet Teddy Records, Valvolare Records, Bloody Sound, Marinaio Gaio
Line-up:
Ceccà / Drums
Frè / Guitar, Voice
Già / Bass
Tracklist:
01. The Lost Battle Of Minorca
02. Magnete
03. Debbie Suicide
04. In My Head
05. 1-2-3 Kid
06. Tetsuo
07. Naked Violet
08. Border
I Lleroy sono un power trio da Jesi nato nel 2003 che esordisce pubblicando nello stesso anno l’interessante ep “Raptus”, con l’intenzione di rielaborare all’italiana l’hardcore ed il noise vecchia scuola; ora finalmente arrivano all’esordio sulla lunga distanza con “Juice of Bimbo”, potendo tra l’altro contare sul solito egregio lavoro in fase di produzione di Gulio Favero.
Le fonti d'ispirazione del gruppo sono da ricercare innanzitutto nel sound di casa Amphetamine Reptile, in particolare Melvins ed Unsane, ma anche nei Nirvana di “Bleach” nonché gli immancabili ed imprescindibili Jesus Lizard.
La band marchigiana non nasconde quindi la propria devozione per questo tipo di sonorità ma ciò non significa che difettino di personalità, dimostrando di avere metabolizzato tale lezione per rinverdirla ed attualizzarla; l’ottimo controllo mantenuto sul muro sonoro creato e la capacità di comporre vere canzoni, gestendo mirabilmente le esplosioni soniche, rende i pezzi decisamente accessibili e trascinanti, badando alla sostanza prima di tutto.
Da rimarcare il lavoro della sezione ritmica, sulle orme di Dale Crover, ma anche la chitarra svolge un lavoro davvero interessante tra impennate e dissonanze, il tutto unito da una voce diretta e coinvolgente, sia nell’uso della lingua inglese che negli episodi in italiano, in particolare Tetsuo (forse il miglior brano in assoluto dell’intera tracklist).
L'album si apre con The Lost Battle Of Minorca, pezzo che mette subito in chiaro le cose tanta è la potenza sprigionata, ma è il trittico Debbie Suicide, In My Head, 1-2-3 Kid che fa salire le quotazioni dell’album, quanto meno per impatto. Naked Violet si rivela come l’episodio più schizofrenico ed intenso, mentre spetta a Border chiudere con stile un lavoro ad alto tasso adrenalitico e senza cadute di tono, mettendo a dura prova la tenuta fisica dell’ascoltatore e non concedendo nemmeno un attimo per riprendere fiato lungo tutti i 30 minuti della sua durata.
Il noise italiano è particolarmente vivo, scalpitane più che mai e questo “Juice of Bimbo” ne è l’ennesima conferma, andandosi a collocare tra almeno altre tre notevoli uscite di questo 2008 quali Dead Elephant, Putiferio e Lucertulas; quattro proposte di livello assoluto e che brillano di luce propria, merito di una spiccata personalità figlia di diversi modi di rileggere e rivisitare la lezione dei maestri d’oltreoceano.
-Edvard-
Lleroy@Myspace
martedì, dicembre 02, 2008
AMIA VENERA LANDSCAPE - S/t
Anno: 2008
Line-up:
Alessandro Brun / Screamed Vocals
Marco Berton / Melodic Vocals and Guitar
Enrico Uliana / Guitar
Giacomo Dell' Orco / Guitar
Michele Dalla Mora / Bass
Simone Pellegrini / Drums
Tracklist:
1. My Hands Will Burn First
2. Nicholas
3. Glances
Gli Amia Venera Landscape sono un giovane sestetto veneto che si pone senza dubbio tra le migliori nuove realtà del panorama musicale nazionale, con una proposta davvero accattivante che travalica i generi.
Dopo un demo autoprodotto del 2007, la band partecipa alla compilation Neurosounds Vol.1 con il brano “a new aurora”, subito in grado di distinguersi all’interno di una nutrito numero di ottimi ed emergenti gruppi nostrani; successivamente, con una lineup ormai consolidata, arrivano ancora maggiori consensi e visibilità, anche grazie ad un’attenta attività live.
Recentemente è stato quindi pubblicato l’atteso ep di debutto omonimo che, seppur consta stranamente di soli 3 pezzi, riesce nei 17 minuti in questione a metter in luce tutte le peculiarità della band, proponendo una miscela sonora particolarmente interessante e soprattutto di pregevole fattura, sia dal punto di vista compositivo che squisitamente tecnico.
Registrato agli Studio 73 di Ravenna da Riccardo “Paso” Pasini e Federico Tanzi, con parti vocali e strumentali addizionali presso i Garage Studio ed i Venera Studio, l’ep mette in luce una band matura e decisamente cresciuta rispetto al demo, sia nelle partiture strumentali che nella gestione e l’uso delle due voci (una in screaming ed una melodica), ma soprattutto con un approccio molto professionale, ponendosi già su standard qualitativi da band di caratura superiore.
Le influenze del loro sound sono varie ed apparentemente difficilmente conciliabili, partendo dai Cult of Luna (in particolare del periodo “Salvation”), passando per Underoath e Thursday, fino a Kayo Dot, Dillinger Escape Plan e Tool. I tre brani proposti rappresentano quindi tre diversi lati della loro personalità sonora: dall’approccio diretto ed intenso, aggressivo e dinamico dell’opener “My Hands Will Burn First” all’incidere fortemente progressivo e ricco di sfaccettature della lunga “Nicholas” (ove fa capolino una voce femminile di sottofondo e viene dato ampio spazio al synth e ad atmosfere soffuse ed ambientali), per concludere con “Glances” in modo decisamente più easy listening, strizzando l’occhio a melodie vocali di facile presa ma sempre con perizia e classe, lasciando per un attimo in secondo piano il possente assalto a tre chitarre caratterizzato da stacchi e imperiose dissonanze e che, unito ad un drumming potente, fantasioso e tecnico, si delinea come elemento cardine e fondamentale del loro approccio di base.
Resta il rammarico per la scarsa durata dell’ep, soprattutto vista la validità della proposta, ma guardiamo il risvolto positivo…alla luce di questa prestazione il loro futuro esordio sulla lunga distanza sarà una delle uscite da attendere con maggiori aspettative e su cui puntare ad occhi chiusi, su questo credo che molte attente etichette nazionali ed internazionali saranno d’accordo.
-Edvard-
Amia Venera Landscape@Myspace
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