domenica, dicembre 09, 2007
NEUROSOUNDS VOL.1
Neurosounds Vol.1: Stones From The Sky, the first compilation about the italian "post" scene is online!
Cd X: [click here to download]
Vanessa Van Basten La Scatola (6.10)
Lento Need (5.50)
Morkobot Zorgongollac (3.04)
Infection Code Sweet Taste Of Sickness (4.50)
Tears|Before Portland (6.32)
Incoming Cerebral Overdrive Food (2.54)
Storm{O} Inconsiderata Putrefazione (3.20)
Sicklown Illusion (8.05)
Psychocean Overtones (4.57)
Amia Venera Landscape A New Aurora (7.09)
Juggernaut Nailscratched (4.35)
Jagannah Pyl (4.00)
Last Minute To Jaffna Dawn (11.20)
Deflore Home (3.05)
Cd Y: [click here to download]
One Starving Day Black Star Aeon (12.34)
Fog In The Shell The Night Will Not Stay (8.24)
Tomydeepestego Mizar (11.27)
Three Steps To The Ocean Submerged Universe (10.17)
Viscera/// White Flies (7.53)
A Cold Dead Body Our Best Years (7.05)
Orbe Aleph (6.20)
Turquoise Glimmervoid (8.20)
Larva La Pioggia e Le Lumache (7.01)
For further informations about the bands go Here.
ARTWORK.
Questa opera è pubblicato sotto una
Licenza Creative Commons.
Special thanks to our partners (Audiodrome, Blackout69, HateTV, Noize, Perkele, Rockline, Taxi-Driver) and to the following record labels for their permission: Supernatural Cat, Knvbirecords, Beyond Productions, Myphonic Records, Subsound Records, Planaria Recordings, SoulFleshCollector, Bael.
Feedbacks are welcome...enjoy!!!
lunedì, novembre 26, 2007
lunedì, novembre 19, 2007
Le Memorie dello Squalo
Ludoviciano...vi seguirà ovunque, non vi lascierà scampo finchè non avrà esaudito il suo desiderio, ovvero portare a termine la vostra esistenza.
Esistenza, una parola che racchiude tutto, un significato profondo tanto quanto l'abisso, quel posto dove vive ogni tipo di pesce concettuale; si spostano tra i flussi di coscenza, per difendersi da tali esseri bisogna escogitare l'impossibile.
Immaginate di risveglarvi un giorno, dove ricordate soltanto di dover respirare e, per vostra fortuna, avete ancora il dono di sapere esprimervi e comprendere un linguaggio, solo questo.
Suvvia, incamminatevi, seguite le orme del primo Eric Sanderson.
Le Memorie dello Squalo - Steven Hall
Enoch
lunedì, novembre 12, 2007
Taint - Secrets & Lies
Si sta tornando progressivamente alla riscoperta dell'hard-rock anni '70, rileggendolo però in chiave decisamente più moderna con un forte background metal ed hardcore. I britannici Taint rimettono piede nella scena a due anni dall'ottimo “The Ruin Of Novà Roma” con un album che segna una marcata virata verso un sound più retrò che di questi tempi, anche grazie a formazioni di assoluto valore come Mastodon, Baroness e Capricorns, è molto in voga in un certo salottino heavy. L'impianto quindi soffre qualche taglio alle reminiscenze sludge e le linee vocali assumono connotati più melodici ma non per questo meno diretti. Vien da dire che un certo fascino la proposta dei Taint l'abbia un po' perso ed invero a questo nuovo capitolo continuiamo a preferire il debutto, vuoi per un'irruenza più marcata e a tratti davvero infuocata, vuoi per una spontaneità lì preminente. Ma non vogliamo star qui a lapidare i Taint in seno alle loro scelte stilistiche (vien da dire anche insindacabili); alla resa dei conti il power-trio gallese (vengono da Swansea) riesce ad infilare una serie di canzoni di tutto rispetto edificate su impalcature che mettono in mostra una spiccata maturità, riponendo molta cura ed attenzione sulle strutture di svolgimento e mettendo in mostra l'esigenza di esplorare nuovi sentieri sonori, magari legandosi a doppia mandata con echi di un passato glorioso come quello dei Jethro Tull (i flauti che sbucano all'improvviso in “What The Crow Saw”). Che i Nostri abbiano cambiato un po' le carte in tavola si sente sin dall'iniziale “Hex Breaker” che allestisce un assalto all'arma bianca sulle dense maglie di un rifferama che sarebbe tanto piaciuto ai Soundgarden della prima ora. Star qui a menzionare l'ascendenza mastodoniana di questi tempi sta diventando pressoché routine data l'immane importanza che il four-piece di Atlanta è stato in grado di guadagnarsi con la pietra angolare “Leviathan”: l'ultima sezione di “Brainstorm Zombie Revival” e “Triumvirate” paiono essere dei chiari omaggi, così come l'intro tra arpeggi dissonanti e slabbrature di “Goddamn This City”. Il sottoscritto ha parecchio apprezzato la seconda parte di “Mass Appeal Sadness” (presumibilmente una ghost-track, ma ci si avvale del beneficio del dubbio) per la cupa e sofferta atmosfera nata da un magma di riff accompagnato da un'andatura ben cadenzata in un'odissea prog costruita parecchio bene. In cabina di regia siede un certo Alex Newport (mastermind dei tanto sottovalutati Fudge Tunnel) e “Secrets And Lies” esce su Rise Above di Lee Dorrian e dimostra che i Taint sono una formazione degna di rispetto e che può suscitare l'interesse di molti cultori dell'hard-progressive contemporaneo. Forse un gradino sotto il già citato debutto, ciò non toglie che questa nuova prova abbia le carte in regola per ritagliarsi il suo meritato spazio.
Locust
domenica, ottobre 28, 2007
Illusioni
Senz'ombra di dubbio certi concetti non possono essere narrati, vanno contestualizzati, per lasciarli poi emergere da se, uno ad uno.
Donald è il Messia o semplicemente un uomo, un umano, che ha inteso il proprio percorso "diversamente" da altri?
Non serve dare una risposta a questa domanda, Bach infonde questo "sapere" come nessuno mai.
Tutto è condizionato da tutto, noi agiamo su tutto e tutto agisce su noi, quindi, seppur irrilevante, per logica questo scritto può creare un cambiamento...o è solo l'illusione che sia così?
"Imparare significa scoprire quello che già sai"
Richard Bach, Illusioni, 1979.
Enoch.
In Rainbows
Radiohead - In Rainbows
Fiumi di parole sono già state spese a proposito di quest'album.
Potrei iniziare a parlare della rivoluzionaria strategia di marketing con la quale è stato distribuito online.
Potrei dirvi che l'opener 15 step è quella che più chiaramente richiama Hail to the thief, con la sua base ritmica tribale e la voce di Yorke che si dipana seguendo scale inusuali nella musica pop. Potrei parlare di Nude e della sua atmosfera jazzata, quasi lounge, o della neo-psichedelia di Weird fishes/Arpeggi. Potrei scrivere pagine intere decantando la bellezza cristallina di All I need e della sua coda finale quasi post-rock, così come potrei aggiungere che Faust arp sembra scritta da un McCartney nato nel 21mo secolo e Reckoner racchiude tutte la rabbia che i Radiohead sembrano avere represso da 5 anni a questa parte. E che Videotape è una chiusura da brividi, con Yorke che canta su uno sfondo funereo di pianoforte.
Potrei.
Ma non voglio disturbare il vostro ascolto di questo splendido disco.
Vortex.
venerdì, ottobre 26, 2007
IL TEATRO DEGLI ORRORI
In data 21/08 abbiamo sentito via mail Giulio Ragno Favero e Pierpaolo Capovilla per fare un pò il punto della situazione dopo l'uscita del debut Dell'Impero Delle Tenebre, ecco qui il risultato:
Ciao ragazzi, innanzitutto parliamo del disco che ormai è uscito da circa 4 mesi; pare sia stato accolto e recensito molto bene ovunque, vi aspettavate un riscontro del genere?
Giulio: Ciao a voi… Direi che più che aspettarcelo, un po ci speravamo… nel senso che abbiamo lavorato duro, per due anni, e alla fine un po’ di risultati ci sono. Ben vengano!
Pensate che possa dare una scossa al panorama alternativo italiano, rappresentare una sorta di nuovo corso non solo nel modo di suonare ma soprattutto nel modo in cui i media e gli addetti ai lavori si approcciano alla musica?
Giulio: dare una scossa…perché? No direi che il panorama italiano ha quel che si merita. Di certo noi non vogliamo essere i capostipiti di niente, anche perché non facciamo nulla di realmente nuovo, solo musica un po più cattiva della media, ma cantata e pensata nella nostra lingua… Dubito che le sorti del rock o del panorama italiano cambieranno perché ci siamo noi… L’unico obbiettivo che abbiamo è che la gente “senta” la nostra onestà… Non inventiamo nulla, suoniamo solo quello che ci piace, e cerchiamo di farlo col cuore… e con la testa. Siamo ben lontani da certi media, e siamo ben diversi da certi addetti ai lavori, hahaha!
Siete ormai costantemente in giro a suonare da quando è uscito il disco… quante date avete fatto finora all’incirca?
Giulio: Da Aprile, una quarantina credo. Ci sarebbe piaciuto farne di più, ma non facendo esattamente “pop” è un po difficile…
In linea generale come vi è parsa la partecipazione e la reazione del pubblico ai vostri concerti?
Giulio: Beh… Man mano che si va avanti, si vedono gli effetti desiderati, ovvero: la gente conosce le canzoni e le canta con noi... questo è molto bello, anche perché l’italiano rende tutto molto immediato… si comunica sul serio, subito. All’inizio il pubblico sembrava un po’ impaurito, o sembrava non capire: forse si fa un po’ di fatica a mandar giù la nostra musica al primo impatto; bisogna digerirla, e dopo credo si capiscano meglio le intenzioni e di conseguenza il concerto… in ogni caso direi che da un paio di mesi a questa parte c’è un’ottima risposta.
Qualche data in particolare che vi è rimasta impressa per qualche motivo?
Giulio: In genere io apprezzo molto le date nei luoghi piccoli e bui, in cui la gente ti alita in faccia, in cui c’è un quasi-scontro fisico, e ne abbiam fatte un paio di date così, in cui ci siamo proprio divertiti anche se non si capiva niente… Però alla fine abbiamo fatto più festival che altro…di queste all’aperto, una bella data è stata il Miami, che ci ha dato la possibilità di suonare di fronte a 5000 persone, forse di più…non siamo in giro da molto, ed è stato un bel privilegio, e un buon concerto, anche se mancavano all’impianto una ventina di migliaia di watt…
Dal vivo avete un impatto ed una intensità sonora davvero notevole, le parti di chitarra in particolare sono decisamente più sporche e rumorose rispetto al disco……
Giulio: Il live è volutamente più sporco, anzi direi “zozzo”! Ci si lascia andare e si cerca di seguire il filo logico dei pezzi, che però su un palco hanno una vita tutta loro. Pensa che ci piacerebbe essere ancora più estremi, meno lineari. Vedremo… in ogni caso, ci scusiamo se qualche volta non si capisce bene quello che succede: “it’s only ROCHENROL!”
Comunque questo non impedisce ai brani più melodici come “La Canzone di Tom” e “Lezione di Musica” di rendere molto bene, perdendo davvero poca atmosfera rispetto alle versioni da studio…
Giulio: Anche secondo noi vengono bene..sono forse le più intime, per cui si cerca di impegnarsi di più.. insomma in definitva noi ce la mettiamo tutta: ogni tanto si sente, ogni tanto no…
Dal punto di vista lirico-vocale penso che la dimensione live non faccia che esaltare ancor di più questa caratteristica del vostro sound, i testi dissacranti, l’approccio teatrale ed a volte improvvisato…..
Pierpaolo: Non credo che i miei testi siano dissacranti. Il semplice fatto che siano in italiano li rende più efficaci.
Avete in programma ancora molte date o ancora nulla di preciso?
Giulio: Diciamo il più possibile fino a gennaio.
L’anno prossimo vi fermerete per scrivere del nuovo materiale o per il momento preferite non farvi fretta e concentrarvi sul far conoscere “Dell’ Impero delle Tenebre”?
Giulio: “Dell’ Impero delle Tenebre” avrà un suo degno successore l’anno prossimo, probabilmente in Autunno. Nel frattempo, oltre a scrivere i pezzi nuovi, assolveremo gli impegni che ognuno di noi ha con gli altri gruppi.
In ogni caso pensate di muovervi sulle stesse coordinate del debutto oppure di cercare di sperimentare soluzioni nuove?
Giulio: Entrambe le cose. Ci piacerebbe esplorare ambienti nuovi, ma bisogna trovare il modo giusto per farlo, e non è sempre facile. Comunque in cantiere ci sono un bel po di cosette, anche se non ti nascondo che mi piacerebbe fare un disco completamente diverso da questo…chissà…
Alcuni vi definiscono troppo ancorati al sound di Jesus Lizard e Melvins, a voi la replica…..
Giulio: Troppo? E’ possibile… assieme a qualche altro milione di gruppi. Non vedo il problema, anzi..lo prendo come un comlimento: c’è chi ci sente i Melvins, chi i Jesus Lizard, chi Tenco, chi Jannacci… Diciamo che non ne facciamo un vanto, ma non lo consideriamo un difetto… Chi ha voglia di novità, cerchi altrove. Sia con One Dimensional Man, che con il Teatro, non abbiamo mai nascosto il fatto che sono gruppi che ci hanno ispirato, e che rispettiamo, ammiriamo, e per attitudine, imitiamo. Ed è comunque meglio assomigliare a loro che a molte altre cose che si sentono in giro in questi giorni. Tutto quello che posso dirti è che cerchiamo di essere il più genuini e onesti possibile, e questo forse può dar fastidio, ma anche molte soddisfazioni. Ultima cosa: io e Pierpaolo conosciamo a memoria quasi tutti i dischi dei gruppi succitati, e sarebbe interessante, trovare tutte queste analogie, forse in realtà ce ne sono meno di quanto sembri…a voi la replica ;-)
Pierpaolo: Di ciò che dicono i nostri detrattori non me ne frega niente. Essere simili a Jesus Lizard, gruppo che Steve Albini definì il miglio gruppo rock del pianeta, mi fa solo piacere. Comunque, ai Jesus Lizard ho sempre preferito Scratch Acid.
Avete nel frattempo girato anche un video per Compagna Teresa, come mai la scelta è ricaduta proprio su questo pezzo?
Pierpaolo: E’ una canzone in cui dietro ad una storia d’amore si nasconde la tragedia: l’assassinio di una partigiana. E’ il pezzo più compiutamente politico, e ci sembrava giusto farne il singolo del disco.
Pensate che i video siano un mezzo utile per una band indie?
Giulio: Penso lo sarebbe se ci fosse un equo sistema di trasmissione. In realtà non è così: c’è sempre qualcuno che decide se un video è buono o meno, abbastanza commerciabile o meno, attuale o meno…infischiandosene alla grande delle scelte stilistiche dell’artista, e creando di fatto un ambiente elitario, in cui passi solo se hai determinate caratteristiche. Questo per quanto riguarda la tv…per fortuna la tv stà perdendo potenza (anche se noi italiani ne siamo pressoché schiavi), a favore di internet, sistema anch’esso controllabile, ma anche più democratico e, di sicuro, un po’ più libero. La televisione sta avendo quel che si merita: il nulla.
Possiamo ritenere il progetto One Dimensional Man un capitolo chiuso?
Giulio: No. Anzi.
Cantare in italiano direi che è una scelta coraggiosa, ma allo stesso tempo quasi obbligata, dato l'approccio lirico. Secondo voi oggi è comunque più un vantaggio o uno svantaggio?
Pierpaolo: E’ nell’ordine delle cose che l’Italiano sia commercialmente più spendibile. Siamo in Italia, i fruitori sono italiani.
Giulio: cantare in italiano comincia ad essere un pò obbligatorio secondo me: dopo così tanti anni di egemonia anglofona, c’è bisogno di credere che la musica indipendente possa essere apprezzabile anche nella nostra lingua. A noi spesso viene fatto notare che l’italiano sembra non accostarsi volentieri a quel che facciamo…secondo noi invece ci stà di brutto. È un po riduttivo pensare che il rock, anche quello più estremo, siano legati al suono dell’inglese, e che comunque l’italiano vada bene solo per Gigi D’alessio o Vasco: ricordo con piacere gruppi punk e hardcore degl’anni ottanta che cantavano in italiano, come ByAllMeans, Negazione o Impact. Forse è facile nascondersi dietro una lingua che non è la propria, e forse, spesso, troppo spesso, non si ha niente da dire.
Quali sono i vostri ascolti attuali, ed in particolare chi o cosa vi ha colpito maggiormente in questi ultimi anni?
Giulio: mmm…poco…i classici, da sempre e di sempre: NomeansNo, King Crimson, TheEx, Neurosis, Melvins, Paolo Conte, Jannacci…le cose più nuove che scopro spesso vengono da lontano, nel tempo e nei luoghi..dall’africa, dall’india o dal sud america..ci son più cose interessanti nella musica etnica tibetana o etiope, che su Myspace. Ultimamente sto ascoltando un bel po di musica sinfonica contemporanea, tipo la musica spettrale di Gerard Grisey o cose simili..diciamo che sono più interessato al concetto che alla materia armonica… Ogni tanto si scopre qualcosa di piacevole comunque, ma non certo di nuovo (anche perché comunque il “nuovo” non lo cerco nemmeno)… ascolto molto la radio: mi piace sentire le persone che parlano…oppure le frequenze che trasmettono i fili dell’alta tensione sulle autoradio, in AM tra i 150 e 180 Khz.. Ormai c’è musica ovunque… Col lavoro che faccio poi, faccio sempre più fatica a metteremi ad “ascoltare”…cerco ancora di “sentire”
Pierpalo: Negli ultimi anni mi sono piaciuti solo i dischi di Radiohead e Blur. Per il resto, Tom Waits e il cantautorato italiano degli anni 70.
Ok ragazzi, siamo alla fine, intanto vi ringraziamo moltissimo per questa intervista ed ovviamemte ci si vede on the road.....avete qualcosa d'altro da aggiungere?
Giulio: Dio non esiste. Grazie
Pierpaolo: Dio esiste. Ed è molto arrabbiato.
Ciao ragazzi, innanzitutto parliamo del disco che ormai è uscito da circa 4 mesi; pare sia stato accolto e recensito molto bene ovunque, vi aspettavate un riscontro del genere?
Giulio: Ciao a voi… Direi che più che aspettarcelo, un po ci speravamo… nel senso che abbiamo lavorato duro, per due anni, e alla fine un po’ di risultati ci sono. Ben vengano!
Pensate che possa dare una scossa al panorama alternativo italiano, rappresentare una sorta di nuovo corso non solo nel modo di suonare ma soprattutto nel modo in cui i media e gli addetti ai lavori si approcciano alla musica?
Giulio: dare una scossa…perché? No direi che il panorama italiano ha quel che si merita. Di certo noi non vogliamo essere i capostipiti di niente, anche perché non facciamo nulla di realmente nuovo, solo musica un po più cattiva della media, ma cantata e pensata nella nostra lingua… Dubito che le sorti del rock o del panorama italiano cambieranno perché ci siamo noi… L’unico obbiettivo che abbiamo è che la gente “senta” la nostra onestà… Non inventiamo nulla, suoniamo solo quello che ci piace, e cerchiamo di farlo col cuore… e con la testa. Siamo ben lontani da certi media, e siamo ben diversi da certi addetti ai lavori, hahaha!
Siete ormai costantemente in giro a suonare da quando è uscito il disco… quante date avete fatto finora all’incirca?
Giulio: Da Aprile, una quarantina credo. Ci sarebbe piaciuto farne di più, ma non facendo esattamente “pop” è un po difficile…
In linea generale come vi è parsa la partecipazione e la reazione del pubblico ai vostri concerti?
Giulio: Beh… Man mano che si va avanti, si vedono gli effetti desiderati, ovvero: la gente conosce le canzoni e le canta con noi... questo è molto bello, anche perché l’italiano rende tutto molto immediato… si comunica sul serio, subito. All’inizio il pubblico sembrava un po’ impaurito, o sembrava non capire: forse si fa un po’ di fatica a mandar giù la nostra musica al primo impatto; bisogna digerirla, e dopo credo si capiscano meglio le intenzioni e di conseguenza il concerto… in ogni caso direi che da un paio di mesi a questa parte c’è un’ottima risposta.
Qualche data in particolare che vi è rimasta impressa per qualche motivo?
Giulio: In genere io apprezzo molto le date nei luoghi piccoli e bui, in cui la gente ti alita in faccia, in cui c’è un quasi-scontro fisico, e ne abbiam fatte un paio di date così, in cui ci siamo proprio divertiti anche se non si capiva niente… Però alla fine abbiamo fatto più festival che altro…di queste all’aperto, una bella data è stata il Miami, che ci ha dato la possibilità di suonare di fronte a 5000 persone, forse di più…non siamo in giro da molto, ed è stato un bel privilegio, e un buon concerto, anche se mancavano all’impianto una ventina di migliaia di watt…
Dal vivo avete un impatto ed una intensità sonora davvero notevole, le parti di chitarra in particolare sono decisamente più sporche e rumorose rispetto al disco……
Giulio: Il live è volutamente più sporco, anzi direi “zozzo”! Ci si lascia andare e si cerca di seguire il filo logico dei pezzi, che però su un palco hanno una vita tutta loro. Pensa che ci piacerebbe essere ancora più estremi, meno lineari. Vedremo… in ogni caso, ci scusiamo se qualche volta non si capisce bene quello che succede: “it’s only ROCHENROL!”
Comunque questo non impedisce ai brani più melodici come “La Canzone di Tom” e “Lezione di Musica” di rendere molto bene, perdendo davvero poca atmosfera rispetto alle versioni da studio…
Giulio: Anche secondo noi vengono bene..sono forse le più intime, per cui si cerca di impegnarsi di più.. insomma in definitva noi ce la mettiamo tutta: ogni tanto si sente, ogni tanto no…
Dal punto di vista lirico-vocale penso che la dimensione live non faccia che esaltare ancor di più questa caratteristica del vostro sound, i testi dissacranti, l’approccio teatrale ed a volte improvvisato…..
Pierpaolo: Non credo che i miei testi siano dissacranti. Il semplice fatto che siano in italiano li rende più efficaci.
Avete in programma ancora molte date o ancora nulla di preciso?
Giulio: Diciamo il più possibile fino a gennaio.
L’anno prossimo vi fermerete per scrivere del nuovo materiale o per il momento preferite non farvi fretta e concentrarvi sul far conoscere “Dell’ Impero delle Tenebre”?
Giulio: “Dell’ Impero delle Tenebre” avrà un suo degno successore l’anno prossimo, probabilmente in Autunno. Nel frattempo, oltre a scrivere i pezzi nuovi, assolveremo gli impegni che ognuno di noi ha con gli altri gruppi.
In ogni caso pensate di muovervi sulle stesse coordinate del debutto oppure di cercare di sperimentare soluzioni nuove?
Giulio: Entrambe le cose. Ci piacerebbe esplorare ambienti nuovi, ma bisogna trovare il modo giusto per farlo, e non è sempre facile. Comunque in cantiere ci sono un bel po di cosette, anche se non ti nascondo che mi piacerebbe fare un disco completamente diverso da questo…chissà…
Alcuni vi definiscono troppo ancorati al sound di Jesus Lizard e Melvins, a voi la replica…..
Giulio: Troppo? E’ possibile… assieme a qualche altro milione di gruppi. Non vedo il problema, anzi..lo prendo come un comlimento: c’è chi ci sente i Melvins, chi i Jesus Lizard, chi Tenco, chi Jannacci… Diciamo che non ne facciamo un vanto, ma non lo consideriamo un difetto… Chi ha voglia di novità, cerchi altrove. Sia con One Dimensional Man, che con il Teatro, non abbiamo mai nascosto il fatto che sono gruppi che ci hanno ispirato, e che rispettiamo, ammiriamo, e per attitudine, imitiamo. Ed è comunque meglio assomigliare a loro che a molte altre cose che si sentono in giro in questi giorni. Tutto quello che posso dirti è che cerchiamo di essere il più genuini e onesti possibile, e questo forse può dar fastidio, ma anche molte soddisfazioni. Ultima cosa: io e Pierpaolo conosciamo a memoria quasi tutti i dischi dei gruppi succitati, e sarebbe interessante, trovare tutte queste analogie, forse in realtà ce ne sono meno di quanto sembri…a voi la replica ;-)
Pierpaolo: Di ciò che dicono i nostri detrattori non me ne frega niente. Essere simili a Jesus Lizard, gruppo che Steve Albini definì il miglio gruppo rock del pianeta, mi fa solo piacere. Comunque, ai Jesus Lizard ho sempre preferito Scratch Acid.
Avete nel frattempo girato anche un video per Compagna Teresa, come mai la scelta è ricaduta proprio su questo pezzo?
Pierpaolo: E’ una canzone in cui dietro ad una storia d’amore si nasconde la tragedia: l’assassinio di una partigiana. E’ il pezzo più compiutamente politico, e ci sembrava giusto farne il singolo del disco.
Pensate che i video siano un mezzo utile per una band indie?
Giulio: Penso lo sarebbe se ci fosse un equo sistema di trasmissione. In realtà non è così: c’è sempre qualcuno che decide se un video è buono o meno, abbastanza commerciabile o meno, attuale o meno…infischiandosene alla grande delle scelte stilistiche dell’artista, e creando di fatto un ambiente elitario, in cui passi solo se hai determinate caratteristiche. Questo per quanto riguarda la tv…per fortuna la tv stà perdendo potenza (anche se noi italiani ne siamo pressoché schiavi), a favore di internet, sistema anch’esso controllabile, ma anche più democratico e, di sicuro, un po’ più libero. La televisione sta avendo quel che si merita: il nulla.
Possiamo ritenere il progetto One Dimensional Man un capitolo chiuso?
Giulio: No. Anzi.
Cantare in italiano direi che è una scelta coraggiosa, ma allo stesso tempo quasi obbligata, dato l'approccio lirico. Secondo voi oggi è comunque più un vantaggio o uno svantaggio?
Pierpaolo: E’ nell’ordine delle cose che l’Italiano sia commercialmente più spendibile. Siamo in Italia, i fruitori sono italiani.
Giulio: cantare in italiano comincia ad essere un pò obbligatorio secondo me: dopo così tanti anni di egemonia anglofona, c’è bisogno di credere che la musica indipendente possa essere apprezzabile anche nella nostra lingua. A noi spesso viene fatto notare che l’italiano sembra non accostarsi volentieri a quel che facciamo…secondo noi invece ci stà di brutto. È un po riduttivo pensare che il rock, anche quello più estremo, siano legati al suono dell’inglese, e che comunque l’italiano vada bene solo per Gigi D’alessio o Vasco: ricordo con piacere gruppi punk e hardcore degl’anni ottanta che cantavano in italiano, come ByAllMeans, Negazione o Impact. Forse è facile nascondersi dietro una lingua che non è la propria, e forse, spesso, troppo spesso, non si ha niente da dire.
Quali sono i vostri ascolti attuali, ed in particolare chi o cosa vi ha colpito maggiormente in questi ultimi anni?
Giulio: mmm…poco…i classici, da sempre e di sempre: NomeansNo, King Crimson, TheEx, Neurosis, Melvins, Paolo Conte, Jannacci…le cose più nuove che scopro spesso vengono da lontano, nel tempo e nei luoghi..dall’africa, dall’india o dal sud america..ci son più cose interessanti nella musica etnica tibetana o etiope, che su Myspace. Ultimamente sto ascoltando un bel po di musica sinfonica contemporanea, tipo la musica spettrale di Gerard Grisey o cose simili..diciamo che sono più interessato al concetto che alla materia armonica… Ogni tanto si scopre qualcosa di piacevole comunque, ma non certo di nuovo (anche perché comunque il “nuovo” non lo cerco nemmeno)… ascolto molto la radio: mi piace sentire le persone che parlano…oppure le frequenze che trasmettono i fili dell’alta tensione sulle autoradio, in AM tra i 150 e 180 Khz.. Ormai c’è musica ovunque… Col lavoro che faccio poi, faccio sempre più fatica a metteremi ad “ascoltare”…cerco ancora di “sentire”
Pierpalo: Negli ultimi anni mi sono piaciuti solo i dischi di Radiohead e Blur. Per il resto, Tom Waits e il cantautorato italiano degli anni 70.
Ok ragazzi, siamo alla fine, intanto vi ringraziamo moltissimo per questa intervista ed ovviamemte ci si vede on the road.....avete qualcosa d'altro da aggiungere?
Giulio: Dio non esiste. Grazie
Pierpaolo: Dio esiste. Ed è molto arrabbiato.
-Edvard-
venerdì, ottobre 19, 2007
DER TODESKING (The Death King)
Produzione: Germania, 1989
Regia: Jorg Buttgereit
Uno schizzo di sangue, e una cornice sghemba che vi si posa sopra, simbolo di un’opera d’arte che è fantasma di morte.
Attraverso il racconto, freddo e chirurgico, di 7 interminabili giorni di suicidio, Buttgereit espone la sua idea di Vita e di Morte. E la forma è quella sporca, imprecisa, sbagliata classica della sua regia amatoriale. Buttgereit si “limita” a farci vedere la Morte per quello che è, con semplicità. La forza incredibile di Der Todesking si annida nella capacità di mostrare il Nulla, senza la pretenziosità di dare risposte, ma facendo sorgere interminabili domande.
In spazi sempre più stretti e privi di ossigeno, i personaggi convivono con il proprio Vuoto, e si tuffano in esso. Buttgereit analizza il fenomeno Suicidio da vicino, osservandolo negli occhi, e trasmettendo l’angoscia e la tensione degli ultimi istanti. E dopo?! Ancora il Vuoto. La catarsi rappresentata da Buttgereit è qualcosa di sconvolgente, lontana da ogni senso di pace o riaffermazione del proprio Io, molto più vicina ad un inquietante fusione con il Nulla. Non è la luce alla fine di un tunnel, bensì la caduta in un pozzo senza fine, privo di luce, e di suoni. Senza cadere in facili moralismi, Buttgereit ci parla di (D)io. Ci parla dello scorrere della vita all’interno di una vasca di vetro, impossibilitati ad uscire, e ci punta davanti l’immagine della nostra inesistente libertà di scelta. Siamo destinati a decomporci, e Il Re della Morte sarà colui che ci mostrerà l’unica via d’uscita, che altro non è se non un’entrata attraverso un’altra porta. Forse tutto questo è una fiaba, alla quale i bambini credono con innocenza, per mascherare l’incapacità dell’essere umano, semplice carne allo sfascio. Carne viva che appartiene alla Morte, e che con lei si ricongiungerà, senza in realtà essersene mai staccato. Perché la vita appartiene alla morte.
E il suicidio viene analizzato nei suoi vari aspetti, attraverso storie di gente comune, destinata all’autodistruzione. Destinata, si, come sembra evidenziare una misteriosa lettera (“Dio creò l’uomo e l’universo in sei giorni, il settimo si suicidò”), catena di Sant’Antonio che prima o poi giungerà a tutti. Ma il suicidio è anche un grido disperato di aiuto, un tentativo, ultimo, di ricongiungersi con la Vita, con la libertà, con se stessi. Un grido di vendetta, che squarcia l’anima di coloro che vivono la morte ogni giorno, e cercano in essa l’ultimo respiro di vita. Che cercano di rimanere vivi nella mente di altri, uccidendoli a loro volta. Uccidendo lo spettacolo, vuoto e triste, della vita. Ma alla fine tutte le storie riconducono al Nulla, a quel cadavere in putrefazione, diretto verso il Vuoto.
Der todesking è certamente l'opera più pretenziosa del regista tedesco, che abbandona quasi del tutto lo splatter estremo per dipingere un intreccio drammatico, a tratti spaventosamente disturbante, a tratti poeticamente commovente. Buttgereit, già con il suo primo lavoro (Nekromantik, 1987) aveva dimostrato di sapersi spingere laddove nessuno aveva mai osato, senza perdere per un attimo la sua profonda poetica. E in Der todesking la conferma diventa ancora più forte, e decisamente più dolorosa. Estremamente funzionale, per rappresentare un mondo decadente, marcio e morto è il suo utilizzo assolutamente fuori dagli schemi della fotografia, del montaggio, dei (pochi) dialoghi. Il senso di oppressione, di solitudine, di morte, è tangibile. Basta una carrellata su un ponte, o un monologo sotto la pioggia, per far provare sulla nostra pelle l'inutilità umana. Il vuoto che mi ha lasciato per giorni è il sintomo che mi sono imbattuto in un capolavoro.
Regia: Jorg Buttgereit
Uno schizzo di sangue, e una cornice sghemba che vi si posa sopra, simbolo di un’opera d’arte che è fantasma di morte.
Attraverso il racconto, freddo e chirurgico, di 7 interminabili giorni di suicidio, Buttgereit espone la sua idea di Vita e di Morte. E la forma è quella sporca, imprecisa, sbagliata classica della sua regia amatoriale. Buttgereit si “limita” a farci vedere la Morte per quello che è, con semplicità. La forza incredibile di Der Todesking si annida nella capacità di mostrare il Nulla, senza la pretenziosità di dare risposte, ma facendo sorgere interminabili domande.
In spazi sempre più stretti e privi di ossigeno, i personaggi convivono con il proprio Vuoto, e si tuffano in esso. Buttgereit analizza il fenomeno Suicidio da vicino, osservandolo negli occhi, e trasmettendo l’angoscia e la tensione degli ultimi istanti. E dopo?! Ancora il Vuoto. La catarsi rappresentata da Buttgereit è qualcosa di sconvolgente, lontana da ogni senso di pace o riaffermazione del proprio Io, molto più vicina ad un inquietante fusione con il Nulla. Non è la luce alla fine di un tunnel, bensì la caduta in un pozzo senza fine, privo di luce, e di suoni. Senza cadere in facili moralismi, Buttgereit ci parla di (D)io. Ci parla dello scorrere della vita all’interno di una vasca di vetro, impossibilitati ad uscire, e ci punta davanti l’immagine della nostra inesistente libertà di scelta. Siamo destinati a decomporci, e Il Re della Morte sarà colui che ci mostrerà l’unica via d’uscita, che altro non è se non un’entrata attraverso un’altra porta. Forse tutto questo è una fiaba, alla quale i bambini credono con innocenza, per mascherare l’incapacità dell’essere umano, semplice carne allo sfascio. Carne viva che appartiene alla Morte, e che con lei si ricongiungerà, senza in realtà essersene mai staccato. Perché la vita appartiene alla morte.
E il suicidio viene analizzato nei suoi vari aspetti, attraverso storie di gente comune, destinata all’autodistruzione. Destinata, si, come sembra evidenziare una misteriosa lettera (“Dio creò l’uomo e l’universo in sei giorni, il settimo si suicidò”), catena di Sant’Antonio che prima o poi giungerà a tutti. Ma il suicidio è anche un grido disperato di aiuto, un tentativo, ultimo, di ricongiungersi con la Vita, con la libertà, con se stessi. Un grido di vendetta, che squarcia l’anima di coloro che vivono la morte ogni giorno, e cercano in essa l’ultimo respiro di vita. Che cercano di rimanere vivi nella mente di altri, uccidendoli a loro volta. Uccidendo lo spettacolo, vuoto e triste, della vita. Ma alla fine tutte le storie riconducono al Nulla, a quel cadavere in putrefazione, diretto verso il Vuoto.
Der todesking è certamente l'opera più pretenziosa del regista tedesco, che abbandona quasi del tutto lo splatter estremo per dipingere un intreccio drammatico, a tratti spaventosamente disturbante, a tratti poeticamente commovente. Buttgereit, già con il suo primo lavoro (Nekromantik, 1987) aveva dimostrato di sapersi spingere laddove nessuno aveva mai osato, senza perdere per un attimo la sua profonda poetica. E in Der todesking la conferma diventa ancora più forte, e decisamente più dolorosa. Estremamente funzionale, per rappresentare un mondo decadente, marcio e morto è il suo utilizzo assolutamente fuori dagli schemi della fotografia, del montaggio, dei (pochi) dialoghi. Il senso di oppressione, di solitudine, di morte, è tangibile. Basta una carrellata su un ponte, o un monologo sotto la pioggia, per far provare sulla nostra pelle l'inutilità umana. Il vuoto che mi ha lasciato per giorni è il sintomo che mi sono imbattuto in un capolavoro.
Eclipze
EINSTURZENDE NEUBAUTEN - Alles Wieder Offen
Troppo semplice, direte, accogliere positivamente Alles Wieder Offen, l'ultima uscita degli Einsturzende Neubauten. Troppo semplice provare referenza per un gruppo che rappresenta una vera e propria icona (non solo musicale, ma artistica in senso più ampio).
Personalmente, sarei portato a dubitare delle recensioni entusiastiche in merito, indipendentemente dal recensore.
Premesso questo, devo anche ammettere di sentirmi vagamente a disagio nel fare io stesso la parte del recensore "al di sotto di ogni sospetto": sì, perchè ritengo l'ultima fatica dei Neubauten splendida, una gemma decadente e oscura che impreziosisce l'ultima parte di questo 2007 musicale.
Molto meno rumoristi che in passato, gli EN versione 2007 sono una strana commistione tra elettronica minimalista, desolazione post-industriale e cupo cantautorato. Dal primo pezzo, "Die Wellen" - ovvero "Le Onde" - fino all'ultimo, "Ich Warte", l'album si dipana in atmosfere decadenti e sottilmente inquietanti, sia negli episodi più intimisti (le canzoni che aprono e chiudono il disco, l'appena più ritmica "Nagorny Karabach", la splendida titletrack e soprattutto i nove opprimenti minuti di "Unvollstaendigkeit"), che in quelli più "ballabili" (tra un'infinità di virgolette), come "Weil weil weil" o "Von Wegen". La voce di Blixa Bargeld, una volta marziale e sgraziata, assomiglia sempre di più a quella di un Leonard Cohen, ed il tono da crooner da piano bar rende ancora più intense le composizioni che, è bene specificarlo - eccettuata, forse, "Let's do it dada" - sono tutte di altissimo livello. I testi - che, con affiancata traduzione in inglese si possono recuperare nel sito ufficiale dell'album, ovvero http://www.alles-wieder-offen.com/track-listing.html - sembrano a carattere prettamente politico-sociale; del resto il titolo dell'album, traducibile con "Tutto è aperto di nuovo", sembra una dichiarazione abbastanza ironica, considerando che viene fatta da tedeschi, riguardo al presente globalizzato e occidentalizzato. I Neubauten non sono più edifici che crollano, terroristi sonori che denunciano a squarciagola i mali di una società capitalista, ma sono diventati intellettuali a tutto tondo che apparentemente sottovoce, ma con una grande forza, stigmatizzano i mali del mondo post-moderno. Musicalmente, che gli Eisturzende Neubauten siano stati grandi è - per fortuna ormai unanimemente - cosa riconosciuta; che gli Eisturzende Neubauten siano riusciti oggi, A.D. 2007, a realizzare un album così grande come Alles Wieder Offen è una gradita sorpresa.
Personalmente, sarei portato a dubitare delle recensioni entusiastiche in merito, indipendentemente dal recensore.
Premesso questo, devo anche ammettere di sentirmi vagamente a disagio nel fare io stesso la parte del recensore "al di sotto di ogni sospetto": sì, perchè ritengo l'ultima fatica dei Neubauten splendida, una gemma decadente e oscura che impreziosisce l'ultima parte di questo 2007 musicale.
Molto meno rumoristi che in passato, gli EN versione 2007 sono una strana commistione tra elettronica minimalista, desolazione post-industriale e cupo cantautorato. Dal primo pezzo, "Die Wellen" - ovvero "Le Onde" - fino all'ultimo, "Ich Warte", l'album si dipana in atmosfere decadenti e sottilmente inquietanti, sia negli episodi più intimisti (le canzoni che aprono e chiudono il disco, l'appena più ritmica "Nagorny Karabach", la splendida titletrack e soprattutto i nove opprimenti minuti di "Unvollstaendigkeit"), che in quelli più "ballabili" (tra un'infinità di virgolette), come "Weil weil weil" o "Von Wegen". La voce di Blixa Bargeld, una volta marziale e sgraziata, assomiglia sempre di più a quella di un Leonard Cohen, ed il tono da crooner da piano bar rende ancora più intense le composizioni che, è bene specificarlo - eccettuata, forse, "Let's do it dada" - sono tutte di altissimo livello. I testi - che, con affiancata traduzione in inglese si possono recuperare nel sito ufficiale dell'album, ovvero http://www.alles-wieder-offen.com/track-listing.html - sembrano a carattere prettamente politico-sociale; del resto il titolo dell'album, traducibile con "Tutto è aperto di nuovo", sembra una dichiarazione abbastanza ironica, considerando che viene fatta da tedeschi, riguardo al presente globalizzato e occidentalizzato. I Neubauten non sono più edifici che crollano, terroristi sonori che denunciano a squarciagola i mali di una società capitalista, ma sono diventati intellettuali a tutto tondo che apparentemente sottovoce, ma con una grande forza, stigmatizzano i mali del mondo post-moderno. Musicalmente, che gli Eisturzende Neubauten siano stati grandi è - per fortuna ormai unanimemente - cosa riconosciuta; che gli Eisturzende Neubauten siano riusciti oggi, A.D. 2007, a realizzare un album così grande come Alles Wieder Offen è una gradita sorpresa.
Vortex Surfer
martedì, ottobre 09, 2007
OM - Pilgrimage (southern lord)
Seppur di esigua estensione, il pellegrinaggio degli Om rassomiglia realmente al percorrimento di un sentiero che ha come meta finale la dissoluzione dell'individuo. L'espiazione qui ha il sentore austero dell'invocazione mistica, una salmodiante litania che assume i connotati del rituale, della necessità di ripudiare il mondo e le sue brutture. La parte centrale di "Pilgrimage" è marchiata a fuoco dal percussivo martellìo di Chris Hakius a sostegno del basso iper-distorto di Al Cisneros, il quale tratteggia linee ipnotiche e laceranti. "Bhima's Theme" trasfigura i Pink Floyd degli esordi psichedelici e li trascina fin dentro il sermone di un'omelia ascetica emotivamente amplificata da una stasi contemplativa, prima che si ripiombi giù sulla terra come ci si risvegliasse da un profondo ma piacevole coma. La title-track, suddivisa strategicamente in due parti, una a prologo e l'altra ad epilogo, eviscera i Tool da ogni filamento metallico lasciando solo un'anacoretica e spoglia linea di basso, vero asse portante in fatto di melodia dell'albo. Infatti, mantenendo così un senso unitario, i riff gravitano attorno ad un nucleo tematico ben definito, che è appunto quello esposto dal componimento che dona il titolo all'opera: i giri di "Unitive Knowledge Of The Godhead" e "Bhima's Theme" sono mere variazioni su un nucleo molto solido e delineato. L'unica critica che può essere mossa è un'eccessiva brevità che, in un certo senso, priva l'opera di estendere maggiormente i propositi descrittivi, potenzialmente davvero molto alti. Rimane comunque il fatto che gli Om pare abbiano trovato i giusti equilibri e le naturali simmetrie in un contesto scevro di chitarre, non semplice situazione in cui si trovano a proprio agio i due arditi musicisti. A parere di chi scrive il loro lavoro migliore, che magari può rappresentare l'incipit spirituale per un futuro album targato Shrinebuilder...
LocustStar
Focusing on...hot releases
A cavallo tra il mese di Settembre e quello di Ottobre sono stati pubblicati almeno sei dischi di valore assoluto e di particolare rilevanza, riguardanti sonorità care al nostro forum.
Il primo in ordine prettamente cronologico è il debut sulla lunga distanza dei Baroness, band della Georgia che sforna per la sempre attenta Relapse un platter, Red Album, capace di riattualizzare il sound caldo e profondo tipico dell’hard dei 70’s, miscelandolo con le moderne tendenze del rock/metal progressivo (Mastodon su tutti).
E’ stata poi la volta di Frames, nuovo lavoro degli inglesi Oceansize, che sembrano aver raggiunto ormai la piena maturità grazie a brani decisamente più snelli ma maggiormente dilatati e marcatamente progressivi, amalgamando in modo davvero personale una gamma di infuenze tra le più varie in circolazione. Ottimo l'uso delle tre chitarre e mai banali le scelte melodiche all'interno dei pezzi....forse la band che attualmente incarna alla perfezione i temi dominanti del rock moderno.
Di notevole portata è pure il ritorno dopo varie peripezie dei Down, che con Over the Under riescono a rinnovarsi ancora una volta, pur rimanendo fedeli al loro possente sound infarcito di blues e southern rock. Sugli scudi Phil Anselmo con una performance vocale davvero sorprendente, la vera marcia in più della band in questo album.
Sul finire di Settembre è stata pure la volta del nuovo parto in casa Today Is The Day; con Axis of Eden mr.Steve Austin, dopo il non eccelso Kiss the Pig, ritorna su altissimi livelli con un lavoro compatto, estremo ma al tempo stesso cupo e ferale, in grado di riportare alla mente i fasti di capolavori del passato ma senza rinunciare a sperimentare soluzioni nuove. Da applausi la prova del nuovo drummer Derek Roddy, ex-Hate Eternal.
Ottobre si apre regalandoci la conferma dell’immensa classe degli Ulver. Shadows of the Sun è il loro disco più notturno e profondo in assoluto; lasciate da parte le ostentazioni e la genialità compositiva di Blood Inside Garm e soci si gettano su territori cari a David Sylvian, ovvero un sound fatto di sperimentazioni minimali, atmosfere avvolgenti e soffuse.
Infine segnaliamo la bella sorpresa a firma Rosetta, band post-core di Philadelphia che con il nuovo Wake/Lift bissa gli ottimi risultati del precedente Galilean Satellites, e grazie anche ad una maggiore maturità compositiva espande il proprio sound oltre le classiche influenze tra Cult of Luna ed Isis.
-Edvard-
mercoledì, settembre 26, 2007
lunedì, settembre 24, 2007
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