Regia: Jorg Buttgereit
Uno schizzo di sangue, e una cornice sghemba che vi si posa sopra, simbolo di un’opera d’arte che è fantasma di morte.
Attraverso il racconto, freddo e chirurgico, di 7 interminabili giorni di suicidio, Buttgereit espone la sua idea di Vita e di Morte. E la forma è quella sporca, imprecisa, sbagliata classica della sua regia amatoriale. Buttgereit si “limita” a farci vedere la Morte per quello che è, con semplicità. La forza incredibile di Der Todesking si annida nella capacità di mostrare il Nulla, senza la pretenziosità di dare risposte, ma facendo sorgere interminabili domande.
In spazi sempre più stretti e privi di ossigeno, i personaggi convivono con il proprio Vuoto, e si tuffano in esso. Buttgereit analizza il fenomeno Suicidio da vicino, osservandolo negli occhi, e trasmettendo l’angoscia e la tensione degli ultimi istanti. E dopo?! Ancora il Vuoto. La catarsi rappresentata da Buttgereit è qualcosa di sconvolgente, lontana da ogni senso di pace o riaffermazione del proprio Io, molto più vicina ad un inquietante fusione con il Nulla. Non è la luce alla fine di un tunnel, bensì la caduta in un pozzo senza fine, privo di luce, e di suoni. Senza cadere in facili moralismi, Buttgereit ci parla di (D)io. Ci parla dello scorrere della vita all’interno di una vasca di vetro, impossibilitati ad uscire, e ci punta davanti l’immagine della nostra inesistente libertà di scelta. Siamo destinati a decomporci, e Il Re della Morte sarà colui che ci mostrerà l’unica via d’uscita, che altro non è se non un’entrata attraverso un’altra porta. Forse tutto questo è una fiaba, alla quale i bambini credono con innocenza, per mascherare l’incapacità dell’essere umano, semplice carne allo sfascio. Carne viva che appartiene alla Morte, e che con lei si ricongiungerà, senza in realtà essersene mai staccato. Perché la vita appartiene alla morte.
E il suicidio viene analizzato nei suoi vari aspetti, attraverso storie di gente comune, destinata all’autodistruzione. Destinata, si, come sembra evidenziare una misteriosa lettera (“Dio creò l’uomo e l’universo in sei giorni, il settimo si suicidò”), catena di Sant’Antonio che prima o poi giungerà a tutti. Ma il suicidio è anche un grido disperato di aiuto, un tentativo, ultimo, di ricongiungersi con la Vita, con la libertà, con se stessi. Un grido di vendetta, che squarcia l’anima di coloro che vivono la morte ogni giorno, e cercano in essa l’ultimo respiro di vita. Che cercano di rimanere vivi nella mente di altri, uccidendoli a loro volta. Uccidendo lo spettacolo, vuoto e triste, della vita. Ma alla fine tutte le storie riconducono al Nulla, a quel cadavere in putrefazione, diretto verso il Vuoto.
Der todesking è certamente l'opera più pretenziosa del regista tedesco, che abbandona quasi del tutto lo splatter estremo per dipingere un intreccio drammatico, a tratti spaventosamente disturbante, a tratti poeticamente commovente. Buttgereit, già con il suo primo lavoro (Nekromantik, 1987) aveva dimostrato di sapersi spingere laddove nessuno aveva mai osato, senza perdere per un attimo la sua profonda poetica. E in Der todesking la conferma diventa ancora più forte, e decisamente più dolorosa. Estremamente funzionale, per rappresentare un mondo decadente, marcio e morto è il suo utilizzo assolutamente fuori dagli schemi della fotografia, del montaggio, dei (pochi) dialoghi. Il senso di oppressione, di solitudine, di morte, è tangibile. Basta una carrellata su un ponte, o un monologo sotto la pioggia, per far provare sulla nostra pelle l'inutilità umana. Il vuoto che mi ha lasciato per giorni è il sintomo che mi sono imbattuto in un capolavoro.
Eclipze
1 commento:
non l'ho ancora visto, mi auto-banno...
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