venerdì, febbraio 27, 2009

BLEEDING EYES - One Less To My Last



Anno: 2008

Lineup:
Lorenzo Conte – Batteria
Simone Tessar – Voce
Andrea Tocchetto – Chitarra
Marco Dussin – Basso

Tracklist:
1. 33 Papers Left
2. Empty Crosswords
3. The Ring Of Fire
4. A Question Of Lust
5. The Long Slow Trip


Formatisi nel 2002 in quel di Montebelluna (TV) i Bleeding Eyes, dopo i primi demo ed un full-lenght autoprodotto, giungono al traguardo di questo nuovo Ep di 5 tracce, registrato come un sestetto (con due cantanti e due chitarristi diversi) ai Rizoma Produzioni studio di Quero (BL), e mixato/masterizzato da un certo Steve Austin (Today Is The Day) agli Austin Enterprise di Nashville.
Per quanto riguarda la release si tratta di una coproduzione tra etichette attente e note nel cicuito underground come la Shove Records, la Mosh Pit Culture e la Dying DIY Productions.
Concerti di supporto a bands di una certa caratura quali Genghis Tron, Knut, Behold... The Arctopus, Akimbo tra gli altri, hanno di certo influito sulla maturazione definitiva della band trevigiana, e questi 20 intensissimi minuti ne sono la testimonianza; hardcore, stoner, sludge, thrash e death metal si fondono mirabilmente nel loro sound, che dopo vari anni e qualche cambio di lineup è giunto ad un ottimo livello tecnico/compositivo e di amalgama tra le varie influenze, per un risultato finale sempre e comunque votato ad atmosfere cupe, marce e fumose.
L’opener 33 Papers Left, l’unico episodio in cui fa capolino il cantato in italiano, dopo un ipnotico intro guidato dalla sezione ritmica travolge con un micidiale ibrido tra sludge, death metal di stampo floridiano ed hardcore; nemmeno il tempo per riprendersi che Empty Crosswords colpisce senza pietà, con il power thrash di stampo Pantera che si fa spazio accanto a possenti e monolitiche cadenze.
Una maggiore concessione alla melodia si intravede invece con le accattivanti movenze di The Ring Of Fire, ricca di accenni blueseggianti.
Con A Questiono Of Lust si torna a picchiare duro, alternando dinamici e corposi rallentamenti al furioso incipit.
Tutto quello finora ascoltato a stento però ci prepara per la definitiva discesa negli inferi rappresentata da The Long Slow Trip, sette minuti tra doom nero come la pece, sludge ed urla ossessive e possedute.
Se nomi quail Mastodon, Crowbar, Down, Eyehategod, Pantera, Electric Wizard, Morbid Angel e Raging Speedhorn sono il vostro pane, il consiglio è quello di non perdervi questa possente e deliziosamente malefica uscita.

-Edvard-


Bleeding Eyes@Myspace

lunedì, febbraio 23, 2009

SHANK

image


A qualche settimana dall'uscita dell'ottimo Create/Devour abbiamo contattato Andrea e Piernicola degli Shank, per parlarci della loro "rinascita":



Ciao ragazzi, è finalmente uscito Create/Devour, vostro secondo album sulla lunga distanza. Iniziamo con il presentare la band e la sua (lunga) storia ai nostri lettori.

A: Ciao Simo, intanto grazie per lo spazio che ci stai dando su Neuroprison! Allora, gli Shank sono una band nata nel Salento, in provincia di Lecce, circa dieci anni fa. L’attuale formazione ha circa un anno e mezzo di vita e vede me (Andrea) alla voce e chitarra, Gianni all’altra chitarra e ai samples, Piernicola al basso e Max alla batteria. Io e Max siamo i due fondatori del gruppo e gli unici rimasti della line-up originaria. Dal ’98 a oggi nella band sono passati di qui altri due cantanti (io inizialmente suonavo soltanto la sei corde), tre bassisti e un chitarrista.
Anche a causa di tutti questi cambi di organico (e di una caterva di altre cose che non sto a raccontarti), siamo stati un gruppo poco prolifico dal punto di vista delle uscite discografiche. Prima di “Create / Devour” infatti abbiamo realizzato un unico altro album, uscito nel gennaio 2005 e intitolato “Sounds Of The Infected”.
Nell’ottobre 2006 registrammo col nostro primo cantante cinque pezzi che dovevano uscire come EP intitolato “Frail”, ma subito dopo le registrazioni lui fu “licenziato”; subentrò il nuovo cantante che dopo un periodo di ambientamento registrò le proprie parti di voce, e infine qualche mese dopo ci fu l’ultimo cambio di line-up e quei pezzi sono stati in parte riarrangiati e completamente ri-registrati dall’attuale formazione nel 2008 e sono confluiti, assieme a tre tracce nuove, in “Create...”.
La nostra attività live è stata abbastanza fitta invece, ormai ci stiamo avvicinando al traguardo dei 200 concerti, principalmente in Puglia. Con l’uscita di “C/D” però è nostra intenzione uscire dai confini del tacco d’Italia e proporci un po’ dappertutto: si spera che a Maggio ad esempio riusciamo a recuperare le date del mini-tour calabro-siculo saltate a fine Dicembre scorso.

Addentrandoci nell’analisi dell’album, nella recensione del disco ho voluto conferirgli un’immagine dualistica, questo dovuto a numerosi fattori. Inizierei innanzitutto dalla suddivisione in due parti, da cosa è nata questa scelta?

A: Come dicevo prima, alcuni dei pezzi di “Create...” sono stati scritti un bel po’ di tempo fa: un paio di essi hanno anche più di 5 anni. In quell’arco di tempo e fino al primo cambio di cantante la vena “melodica” della band era molto spiccata, tra i nostri punti di riferimento collettivi c’erano Faith No More, Deftones e Incubus (brrrr), che convivevano con l’anima più casinara rappresentata fondamentalmente da me e quella più sperimentale di Max.
Quando ho preso in cura anche il reparto vocale le cose sono cambiate di parecchio: i quattro pezzi rimasti più fedeli alle versioni originali sono stati messi in coda a “Create...” come testamento delle vecchie formazioni (“Frail Memories Fading” - fragili ricordi che scompaiono - è il sottotitolo “very very emo” di questa sezione del disco). “The Fallen” invece, che ha ricevuto il rimaneggiamento più radicale, è stata accorpata ai tre pezzi nuovi nel quartetto di testa di “Longing For The Dawn” - nell’attesa dell’alba, più o meno - a significare un momento di rinascita della band dopo un periodo francamente disastroso sotto molti punti di vista.
A separare le due sezioni è stato messo un interludio elettronico ad opera di Max scelto tra quelli che usiamo anche dal vivo ogni tre o quattro pezzi per dare un secondo di respiro a noi e al pubblico.
Fondamentalmente, i quattro pezzi iniziali del CD sono quelli che più si avvicinano all’attuale visione musicale degli Shank, che nel frattempo si è ulteriormente evoluta dato che dal vivo eseguiamo già da un po’ quattro pezzi nuovi, e ne abbiamo già altri in cantiere con la speranza di registrarli prima dell’estate.

Visionando più da vicino il lato musicale, si può notare come la vostra proposta recente sia la sintesi di quanto nato dal superamento dell’hardcore all’inizio dei ‘90 e di ciò che si è sviluppato nella seconda metà del decennio. Come si è arrivati a questo risultato?


A: Sono abbastanza d’accordo con te. Tieni conto che quando abbiamo iniziato il nostro presupposto era di non porci degli steccati stilistici entro i quali rinchiuderci: anche la nostra prima maglietta recitava minacciosa lo slogan “100% unlimited crossover”. Tra le nostre influenze iniziali ti posso citare l’avanguardia post-metal newyorchese di Prong e Helmet, così come l’hardcore evoluto che all’epoca trovava casa su Victory records (Snapcase, i Refused di “Songs To Fan The Flame...”, gli Earth Crisis di “Gomorrah’s...”) o fino a pochi anni prima su Revelation (Quicksand, Orange 9mm), così come i Deftones di “Around The Fur” o gli Earthtone9 (che non mi va di definire nu-metal), e ancora i già citati FNM, i Voivod, i Primus, i Joy Division, i Fear Factory di “Soul of a New Machine” e “Demanufacture”, i Sepultura di “Chaos AD”... Insomma, il primo disco è nato sotto questo segno dell’eclettismo a tutti i costi, e devo dire poi che i primi pezzi che abbiamo scritto nascevano principalmente da idee del nostro primo bassista su cui io poi “ricamavo” con la chitarra.
Quando ho iniziato a essere il principale compositore e anche a scrivere molti dei testi, sicuramente abbiamo iniziato anche a spostare i nostri orizzonti verso altre direzioni a me più consone, più strettamente legate all’hardcore di fine anni ’90/inizio 2000, stemperate dalla sempre preponderante componente melodica. In questa fase intermedia i miei punti di riferimento principali sono stati indubbiamente Poison The Well, Time In Malta, e in seguito, in misura inizialmente minore ma sempre crescente Botch e Converge, ma tieni presente che sempre per lo stesso discorso della vocazione melodica ero io stesso a pormi dei freni compositivi per evitare di scrivere dei pezzi troppo aggressivi. Chiaramente da quando canto io questi freni li ho del tutto buttati nel cesso e mi permetto praticamente di tutto, anche se una certa vena melodica rimane sempre perchè comunque sotto la mia felpa dei Suffocation c’è sempre un cuore hahaha!

Nel vostro suono vi è anche una notevole influenza riconducibile al metal estremo; è una passione datata? Quanto ha contribuito a formarvi musicalmente e soprattutto come si relaziona con la vostra anima hardcore?


A: Ecco, a proposito di Suffocation... No, scherzi a parte, tutti noi in misura diversa abbiamo un passato o un presente da metallari e qualcuno di noi addirittura non so se direbbe di avere propriamente una qualche “anima hardcore”. Per quanto mi riguarda la passione per il metal è più datata di quella per l’hardcore, e non ho mai avuto troppi problemi a farle convivere. Nel CD questo elemento come dici anche tu spicca abbastanza, tra growls, occasionali blast-beats e riff tipicamente metal di scuola americana.

A dividere le due parti del disco vi è un interludio strumentale affidato all’elettronica. Pensate in futuro di integrare questo elemento alla composizione dei brani o si è trattato unicamente di un esperimento dovuto all’urgenza del caso?

A: Come ho detto prima, durante i nostri live i pezzi sono intervallati da interventi elettronici, samples, droni, chiamali-come-vuoi, e non appena Gianni troverà il tempo di dedicarsi al manuale della sua Loop Station probabilmente questo aspetto verrà integrato in maniera molto più decisa nella nostra musica.

L’artwork dell’album è opera di Piernicola; anche esso pare essere strettamente legato al “fil rouge” che unisce i fattori che hanno portato alla realizzazione dell’album. Che idea si cela dietro? Con quali tecniche è stato realizzato?

P: Il layout grafico è incentrato sul concetto di verità, di come possa essere soggettiva, relativa, di come ci appare e di come possa essere manipolata. Vuole rappresentare una riflessione circa il culto dell’apparenza e sulla propensione che noi tutti abbiamo a giudicare le cose anche quando non siamo in possesso di elementi per farlo. Ma probabilmente rispondere “Non ne ho idea” deve sembrare frustrante a molti, per cui ci si avventura spesso in giudizi e commenti giusto per il gusto di farlo. Questo si evince osservando la creatura in copertina, che appare quasi fragile, ma una volta aperto l’interno viene contestualizzata in uno scenario urbano e qui si apprezzano le reali dimensioni della pianta che terrorizza alcuni personaggi. La creatura, in realtà, non ha alcuna intenzione minacciosa nei confronti degli esseri umani perché si appresta solo a cibarsi dalla mano che si intravede sulla sinistra e dunque ci si ricollega al concetto di apparenza (se la pianta è gigante la mano che le porge il fiore appartiene ad un essere ancora più grande) ma le persone fuggono dalla pianta in quanto diversa, e non dall’essere umano ciclopico percepito invece come simile. Tutto ciò riferito anche alle voci sul nostro conto che ci davano per finiti e senza futuro, nel momento in cui eravamo chiusi in sala prove a scrivere i pezzi del disco, alle prese con innumerevoli cambi di formazioni e casini vari. Per quanto riguarda la realizzazione tecnica l’immancabile Photoshop (ho usato la CS2) per la quasi totalità del lavoro, Freehand per i montaggi da spedire in tipografia. Il lavoro è stato realizzato su piattaforma PC con alcune incursioni su un sistema Apple G5 e monitor Lacie 321 32 pollici per il controllo finale della resa dei colori.

Create/Devour è stato prodotto da Fabrizio Giannone; personalmente il risultato mi pare ottimo, voi siete soddisfatti di come suoni il disco?

A: Grazie e assolutamente sì, soprattutto in rapporto ai mezzi e ai soldi che avevamo a disposizione. Le riprese sono state effettuate nella sala prove in cui suonavamo fino a pochi mesi fa, una stanzetta iper-insonorizzata e assolutamente NON ottimale per questo tipo di cose, con un numero di tracce simultanee limitato, che ci ha costretti a dei compromessi soprattutto per la ripresa della batteria. Le chitarre sono state registrate una prima volta e poi completamente rifatte perchè non eravamo soddisfatti del risultato iniziale. Registrare il basso forse è stata la parte più semplice, mentre le voci al contrario sono state un’odissea! Tieni presente che io non cantavo da 6 o 7 anni, ho praticamente ri-imparato a cantare mentre registravo, quindi il processo è stato lungo e laborioso e con molte pause di riflessione.
Sul CD compaiono come ospiti alcuni nostri amici: Chris dei Cast Thy Eyes, Danilo degli Stonecutters e Antonio Mele, che hanno contribuito alle backing vocals su alcuni dei pezzi. Ci sono anche un paio di cori “da stadio” su due pezzi in cui abbiamo cantato tutti assieme noi Shank, i suddetti ospiti e gli altri C.T.E.
Fabrizio ha dato il meglio di se nel mixaggio, sfruttando al 110% le potenzialità di Protools LE e di vari plug-in, poi lavorare con lui è molto piacevole perché è una persona che non ha problemi a mettere in discussione le sue scelte e a provare soluzioni nuove ma sempre con un occhio al progetto finale, per evitare di perdersi per strada pensando alle cazzate. È chiaro che dopo ripetuti ascolti del disco senti sempre qualcosa che a posteriori avresti deciso di fare diversamente, ma un mixaggio è sempre potenzialmente migliorabile, ma arrivi a un punto in cui entrano in gioco il gusto e il buon senso, e dici “beh, siamo qui di fronte a questo computer da una vita, va bene così!”

Liricamente emerge spesso la tematica del dissidio interiore e della frustrazione. A cosa si ispirano i testi e quale è la loro connessione al lato musicale?

A: I testi che scrivo sono un tentativo di trasporre su carta e in maniera spesso metaforica e/o allegorica esperienze o situazioni personali e riflessioni sulle cose che succedono attorno a me. Capita a volte che il testo preceda la canzone, nel senso che adatto la scrittura dei riff e l’arrangiamento alle parole e alla metrica, e devo dire che in questo modo alle mie orecchie un pezzo suona spesso più organico e meno vincolato agli schemi classici di strofa-ritornello-bridge eccetera.
Pezzi come “At War With The Self” e “A Turn For The Worst” hanno anche un sottile significato “politico” ante litteram, perchè il dissidio interiore e l’incapacità di comunicare si riflettono ovviamente nella nostra incapacità di riempire lo spazio vuoto tra noi e gli altri, là dove è il vero luogo e senso della Politica come collante tra le diverse individualità e singolarità che compongono il genere umano. Un pezzo come “Create / Devour” invece, è una canzone sul male di vivere quotidiano, sulla speranza o l’illusione di lenirlo tramite i rapporti e le relazioni con i nostri consimili, sugli strumenti che usiamo come appiglio contro l’incertezza della condizione umana, e sulla pervasività che tali strumenti finiscono per avere, nostro malgrado, nelle nostre vite. La religione è uno di questi, ma non l’unico.

Le vostre origini sono salentine, una zona che musicalmente negli ultimi anni pare in fermento; da veterani della scena cosa potete dirci al riguardo?


A: Ti risparmio ovvie battute su Negramaro, Sud Sound System o la Notte della Taranta e dico che sicuramente in ambito “post” o comunque di “musica heavy rock non convenzionale”, il Salento ha sfornato negli ultimi tempi molte band di valore assoluto dopo un periodo in cui gli unici portabandiera di un certo tipo di suono o di una certa maniera di suonare metal/hardcore eravamo unicamente noi e i compianti NonToccateMiranda. Gruppi come Cast Thy Eyes, Sunward, Stonecutters, Reveries o !Gato De Marmo! possono dire tranquillamente la loro in ambito nazionale, soprattutto ora che grazie a gente come il nostro Fabrizio Giannone si sta appianando anche la differenza di qualità tra le produzioni “del Nord” e le nostre. È chiaro che l’handicap di suonare in una striscia di terra circondata dal mare e lunga 300 km rimane, e fa sì che andare in giro per proporsi sia logisticamente molto più complicato di quanto possa essere per una band dell’entroterra.

Quali sono i problemi maggiori che deve affrontare una band proveniente dal sud-Italia? Vi è una situazione di svantaggio rispetto ai gruppi del centro-nord?

A: Oltre ai punti sollevati nella precedente risposta direi che qui da noi ci sono meno soldi sia nelle tasche nostre che del pubblico, quindi riuscire a prodursi un disco o anche pagare l’affitto della sala prove o cambiare corde e pelli diventano piccole e sudate conquiste...

Da qualche seettimana è on-line il vostro sito, dalla grafica davvero intrigante; potete parlarci un po’ di ciò?

P: Mi è costato una vita di lavoro, non è ancora finito e quando sarà completo dovrò già lavorare al prossimo! Comunque si tratta semplicemente della trasposizione su web del paesaggio che fa da cornice alla copertina del disco, quì animato e completato da altri particolari, come le condizioni atmosferiche che cambiano e si alternano e influenzano lo scenario e l’esperienza di navigazione. Non si tratta di un sito standard, se così possiamo dire, perché ci sono molti dettagli nascosti ed il visitatore deve andare a scovarli controllando per bene ogni dettaglio, anche quelli all’apparenza “passivi” che possono sembrare semplice contorno. Il sito è realizzato tutto in Flash, tranne le pagine per ordinare il disco e il guest che sono realizzate in php.
A: Aggiungo solo che il sito è all’indirizzo www.shank.it

Rimanendo in tema, avete anche una pagina myspace; quali sono i vostri pensieri riguardo la rete come elemento di diffusione della musica?

A: È chiaro ormai da tempo che fenomeni come Myspace e in maniera diversa il file sharing hanno cambiato per sempre i metodi di circolazione e fruizione della musica, portando con se conseguenze positive e negative. Myspace, in particolare, se usato bene ha la capacità di far girare il nome di una band molto più velocemente e diffusamente che qualunque altro mezzo del passato, ma d’altra parte è tutto fuorché un mezzo meritocratico, perchè avvantaggia chi ha semplicemente un sacco di tempo da spendere davanti al pc per fare add e spam a manetta, oppure le pseudo boy- e girl-band che vanno avanti grazie a faccine carine più che alla sostanza musicale...

Avete già programmato alcune date, quali sono gli altri progetti per il futuro?

A: I concerti in zona per fortuna non mancano mai, ma in realtà vorremmo che i week-end spesi fuori a suonare in giro fossero più frequenti. Purtroppo siamo tutti nati negli anni ’70, non siamo più giovincelli con un mucchio di tempo da perdere e spesso e volentieri ci troviamo a dover privilegiare gli impegni lavorativi. Come dicevo all’inizio, avevamo programmato tre date consecutive tra Sicilia e Calabria per metà Dicembre, ma due su tre sono saltate per vari motivi e stiamo provando a fissarle nuovamente per Maggio. È chiaro che siamo aperti a (quasi) ogni tipo di proposta riguardante offerte di date fuori zona, quindi se qualcuno tra chi legge può darci una mano si faccia avanti!

Bene ragazzi, con questo abbiamo finito; grazie per la disponibilità, a voi l’onore di chiudere l’intervista.

A: Neuroprison è stata una scoperta piacevolissima, finalmente un forum musicale su internet dove si parla con competenza di buona musica anziché litigare come ragazzini su chi è meglio tra Manowar e Orchidectomy! (e dove ho scoperto un’infinità di gruppi, italiani e non, di qualità assoluta!)
Grazie veramente Simo, a nome di tutti gli Shank. Se chi legge ne volesse sapere di più su di noi può trovarci su www.shank.it, www.myspace.com/shank555 o scriverci su info@shank.it


Neuros

mercoledì, febbraio 11, 2009

DONKEY BREEDER





Da più parti considerati come la rivelazione della seconda edizione del NeuroFest, dopo la recensione dell'ottimo Ergot, abbiamo contattato i Donkey Breeder, ecco cosa ci dicono Valerio e Alessio, rispettivamente bassista e chitarrista della band modenese:

Benvenuti su NeuroPrison ragazzi; per cominciare che ne dite di raccontarci un po’ come è nata la band?

Valerio: Direi che la prima domanda è per te, Ale...io intanto stappo una birra!
Alessio: Allora, Donkey Breeder era il nome del mio progetto solista (all'epoca suonavo con Valerio nei Pleasure Drowns Desire e nel tempo libero mi dilettavo a comporre musica con il computer e con l'aiuto di Foglia alla voce). Per scommessa, alcuni pezzi finirono in una selezione per partecipare all' Arezzo Wave; quello che non avevo calcolato è che potessero essere scelti e di li a poco mi arrivò la telefonata con la data della prima esibizione...avevano dato per scontato che Donkey Breeder fosse un gruppo!!!! Panico! L'unica soluzione era quella di recarsi nell'ospedale psichiatrico più vicino e trovare tre matti che accettassero questa follia, insegnargli i pezzi per poi buttarsi nell'arena a meno di un mese dalla prima prova insieme. Come incipit è abbastanza traumatico eh?!?!

Perché Donkey Breeder?

Alessio: A dire il vero, era una delle unità di Settlers 2, un videogioco dei tempi delle superiori.

La scelta di suonare interamente strumentali era dichiarata o è stata frutto di qualche situazione particolare?

Alessio: Dopo il primo concerto, il nostro cantante (il mitico Foglia) aveva espresso delle perplessità sul minestrone sonoro che, ancora acerbo, iniziava a delinearsi...e del resto, come dargli torto. Purtroppo, il secondo live era lì a sole tre settimane e la voglia di suonare tantissima, non c'era neanche il tempo sufficiente per bestemmiare e allora per l'ennesima volta, al grido di “Rock'n'Roll”, siamo saliti su quel palco in quattro e così siamo rimasti.

Qualche mese fa è uscito Ergot, vostro primo disco, prodotto agli Studio 73 di Paso. Come è stata questa vostra prima esperienza in studio?

Valerio: Quello trascorso allo Studio73, è stato senza ombra di dubbio il momento più formativo ed intenso che abbiamo vissuto sia come band che singolarmente come appassionati di musica.
Ogni volta che riceviamo un complimento, ci sembra doveroso condividerlo con il Paso e con i suoi collaboratori, perchè, oltre ad essere delle persone fantastiche, sono incredibilmente capaci e professionali.

Il vostro album può essere descritto come “rock strumentale, matematico, progressivo e psichedelico”; quale di questi aggettivi calza meglio secondo voi e quale pensate possa essere il punto di forza del vostro suono?

Valerio: Per citare un nostro carissimo amico, direi "un dito ar culo con la sabbia", ahahah! Anzi, "quattro cazzi in padella" conditi con un'attitidine punk e una spruzzata di anarchia compositiva...in altre parole... non si capisce un cazzo e noi non siamo da meno.

Yorkshire e Kala-azar pongono bene in evidenza il ponte musicale che rappresentate, unendo rock tipicamente “passato” a intemperanze moderne e soprattutto pare che tutti inizi dai Led Zeppelin, siete d’accordo?

Valerio e Alessio: Il tutto parte dalla nostra voglia di esprimerci attraverso la musica. Ognuno di noi, entrando in sala prove, vuole sentirsi libero di far suonare il proprio linguaggio e le proprie idee senza pensare ai contenitori o ai vestiti più indicati da far indossare al pezzo in questione, poi sta alla band trovare il lubrificante che amalgami il tutto. Le influenze ereditate "dal passato"? Beh, sono lampanti ma vengono scopiazz...ehm...reinterpretate con il disincanto di chi suona soltanto per suonare senza pensare all'eco che causerà.

In Empty Cores addirittura fanno capolino delle chitarre vicine a certe cavalcate heavy-metal o sbaglio?

Guarda, a Vale e a Samu il metal “CI PIACE MOLTISSIMO”, a Tommy e ad Alessio meno...cioè a Tommy forse, boh! Cmq, dicevamo? A proposito, ma chi sta parlando di noi?

A nome di chi scrive Unexpected Waterfall Effects è la traccia migliore del disco, dove accade davvero di tutto, come un circo se mi passate il termine. Come nasce una vostra canzone e soprattutto quest’ultima, che è anche quella con il minutaggio più elevato?

Valerio: Innanzitutto, ti ringraziamo per l'appellativo "circense" perchè calza a pennello con i componenti della band. Per quanto riguarda la genesi dei pezzi, vale quanto detto poc'anzi:
birra birra birra birra birra birrrrrrrrrrrra....e whiskey.

Per parlare di Ergot ho scomodato Don Caballero, Russian Circles e Keelhaul (in chiave vintage), anche se si potrebbero fare altri mille nomi; potete citarne altri che apprezzate particolarmente e ritente importanti per il suono Donkey Breeder?

Alessio: Kee???
Valerio: Dai, Ale, cazzo non farmi fare la figura dell'ignorante...i Keelhaul!
Alessio: Whops! Confesso di non conoscerli. Cioè, di nome sì ma non di vista. Meheh.. Mi aggiornerò, promesso.
In ogni caso, The Mars Volta e Porcupine Tree hanno rappresentato una grande fonte di ispirazione, soprattutto nella fase primordiale della band. Poi, singolarmente, oltre ai gruppi da te citati, ascoltiamo Opeth, Mahavishnu Orchestra, Melvins e Dillinger Escape Plan, solo per citarne alcuni.
Valerio: Ehi ehi ehi, Ale! non dimentichi qualcuno?
Alessio: Ah, è vero! Il grande Mino Reitano, da poco scomparso. Vabbè, dai, a parte scherzi...mitico Mino, massimo rispetto da tutti noi.
Valerio: E Al Bano?? Cazzo Al Bano è per sempre!

Essendo una band strumentale è obbligatorio parlare di artwork e testi. Perché dare come titolo il nome di parassita di graminacee?

Valerio: Già già già, eheh! Nasce semplicemente dalla nostra simpatia per i parassiti delle graminacee, soprattutto per quelli che secernono divertenti alcaloidi come l'acido lisergico! Whops!

Alcuni titoli dei vostri brani paiono rispecchiare l’andamento delle canzoni e la loro struttura, come sono stati scelti?

Valerio: Di solito, i titoli dei brani vengono scelti ispirandosi o ad avvenimenti che ci accadono nel periodo in cui scriviamo il pezzo, o a seguito di cazzate mastodontiche sparate in sala prove.

Come è nato l’artwork del disco?

Valerio: ta ta ta taaaaaa! (sinfonia n.5) In una parola? Un travaglio.
Alessio: Per quanto ci sia, fra noi, grande accordo musicale, lo stesso non può dirsi dell'aspetto grafico e sessuale. Ma, in fondo, chissenefrega.

Dall’ascolto del disco traspare una minuziosa ricerca sonora, lo confermate? Quanto siete maniaci della strumentazione?

Alessio e vale in coro:
AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAAHHAAHAH!
Alessio e Vale in coro: (e senza pentimento) AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!
Alessio: Eheh!
Valerio: Ohoh!
Alessio: Ma che cazzo c'è da ridere?
Valerio: Mi sono pisciato sotto.

Venite da Modena, vera e propria “dispensa” di ottimi gruppi; potete parlarci di come vanno le cose dalle vostre parti?

Alessio: E' vero, a Modena esistono ottime band e, a dirla tutta, è una città che offre diverse occasioni per esibirsi. Basta non chiedere soldi, pubblico che sia disposto ad ascoltarti e alcool gratis.

Tasto dolente : suonare dal vivo. Riscontrate anche voi i problemi presenti dalle altre parti d’Italia di questi tempi?

Alessio e Valerio: Affatto, perché, come già detto, suoniamo con la vasella sempre portata di m...ano.

Avete partecipato di recente alla seconda edizione del NeuroFest, che esperienza è stata?

Valerio: Una grandissima esperienza, forse la nostra prima a certi livelli ed è inutile sottolineare la gratitudine per tale opportunità.

Di Ergot se ne sente parlare da membri At the Soundawn, dai ToMyDeepestEgo, dei Last Minute to Jaffna, da un po’ tutto l’ambiente che circola intorno a certe sonorità…ancora nessuno ha bussato alla vostra porta? E voi come vi state muovendo al riguardo?

Valerio: Chi??? At th..Tomy ..to Jafna che? Ma chi cazzo sono? ahahahahah! Guarda permettimi di fare il serio almeno per un istante: suonare in giro ci ha permesso, nell'ultimo anno, di conoscere persone davvero fantastiche, al di là dell'aspetto puramente musicale. Hai citato delle band che stimiamo e alle quasi siamo molto affezionati,anche da un mero e cinico punto di vista sessuale e il fatto che parlino bene di noi ci lusinga. A proposito non è affatto carino chiedere se qualcuno busserà alla porta di quattro poveracci che vivono sotto a un ponte, me ne ricorderò!

Bene ragazzi, prima di chiudere, quali sono i progetti futuri?

Valerio: Birra?
Alessio: Un quartetto blues!


Neuros

venerdì, febbraio 06, 2009

BACHI DA PIETRA




Dopo l'uscita del fantastico Tarlo Terzo, terza fatica dei Bachi da Pietra abbiamo contattato Giovanni Succi per farci il punto della situazione, e questo è quanto ci racconta...



Ciao Giovanni, evitando le domande generiche (e di routine) sulla formazione dei Bachi da Pietra, arriviamo subito al sodo della questione : perché Dorella e perché solo in due?

Perché Dorella ce n’è uno.

Per un suono come il vostro è difficile scindere il lato musicale da quello concettuale/lirico, ma per evitare di perderci proviamo un attimo a separare le due parti. Innanzitutto il suono, dovessi dirti : Jhonny Cash, Tom Waits, Nick Cave, Michael Gira; quali di questi tre artisti hanno più influito sui Bachi?

Tom Waits, gli altri li conosco quasi solo di nome. Autentico padre spirituale insieme ad altri, vera summa di qualcosa che parte dal blues arcaico passando per Beefheart e arriva dritto alla contemporaneità. Ultimamente forse pubblica troppo, ma gli perdonerei anche la maionese impazzita. Come autore, per l’amore e il rispetto che gli porto ( e per il rispetto che porto a me stesso), non mi permetterei mai di scimmiottarne gesti e costumi o di spacciare per mie immagini sue... Mi limito ad adorarlo nel privato e, con la sua lezione stropicciata in tasca, accartocciata insieme a quelle di alcuni altri, me ne vado per la mia strada. La mia strada è fatta anche di cose diversissime dalle sue, sono chiaramente figlio di un’altra generazione. Sulla mia strada, musicalmente parlando, ci sono grandi solchi di rock ad alto voltaggio, metal-punk ed elettronica dove inciampo volentieri.

Personalmente, ho notato come l’evoluzione più marcata rispetto ai precedenti album sia nei tappeti percussionistici di Dorella, più “ritmati” se mi passi il termine; si è letto di certe influenze trip-hop in quest approccio, io ci aggiungo soprattutto scorie post-industriali, tu come la vedi?

La vedo come una cosa che si sta evolvendo. Il gioco della ricerca delle definizioni non mi compete e francamente mi annoia. Post-questo, pre-quello: perché tanta ansia? Definire è terminare. Abbiamo cominciato nel 2005, oggi è il 2009 e non abbiamo ancora finito.
Molte delle parti percussive che probabilmente individui come campioni, sono in realtà prodotte in tempo reale dalle mie mani sulla cassa armonica dello strumento acustico a corde: suonano come elettronica (digitale) e invece sono pura fisica (analogica): parti di corpi che battono; il che ci diverte molto. Chi assiste ad un concerto dei BDP si rende immediatamente conto che quello che facciamo è puramente fisico, quindi - alla fine - è rock’n’roll. Diverso, eppure sempre quello: il fatto che ci si sprema le meningi per capire cosa sia ci dà la cifra del fatto che funziona. E infatti funziona ovunque lo portiamo, anche fuori confine, dove i testi perdono di importanza. Il resto sono parole per spiegare cose che se te le trovi davanti sono chiare come il sole. Dal punto di vista sonoro ci piace giocare a confondere le acque e, soprattutto, ci piace giocare ad arrangiarci con quello che abbiamo e cioè 8 arti (in due), due tamburi (uno fa TUM l’altro fa TA) e uno strumento a corda, più la voce. Ingredienti fissi. La necessità aguzza l’ingegno.

Nella recensione scrivo di “clangori metallici e porte che cigolano, legno che stride e vetri rotti, rami spezzati e arpeggi dissonanti : più che un blues, il suono di Tarlo Terzo è l’incubo post-nucleare in una cascina persa nella campagna piemontese.” Cosa cerchi dal suono della tua chitarra e quanto lavoro si cela dietro esso?

La tua descrizione è pirotecnica ma bella, poetica (ricca di immagini) e calzante, te ne sono grato. Non credo occorra arrivare al post-nucleare per cogliere quello che passa il convento, sono cose che noi traiamo dal normalissimo presente. Mi riallaccio a quello che stavo dicendo: quelle cose che senti le facciamo con quegli ingredienti dichiarati. Quanto lavoro? Tanto. Nel suono della chitarra cerco di tutto, per questo frugo a mani nude.

Essendo i lettori di NeuroPrison maniaci della strumentazione puoi un attimo delineare i tratti principali della tua?

Ampli Fender valvolare anni 70 gracchiante e sfusciante il giusto; un paio di Stratocaster dello stesso periodo (una mi è stata recentemente rubata). Telecaster modello base; Heritage elettroacustica; Seagull acustica (quella con la cassa spaccata); basso acustico Takamine GS. Pedali: un overdrive della Boss. Nei BDP tassativamente sempre senza plettro; riverbero tassativamente sempre sullo zero (AC/DC docet). Solo in TNT c’è una loop-machine in Prostituisciti.

La coda finale di Seme Nero è notevolmente dilatata, omaggio ai Madrigali Magri?

Direi di no... Che io sappia.

Dal Nulla nel Nulla è tra i brani più pacati e “dolci” presenti nel vostro repertorio, come è nata?

Dal nulla.

Perché Tarlo Terzo?

Suona bene come titolo per il terzo album dei bachi da pietra. Non sembra il nome di un qualche patetico desposta in rovina?

Come nascono i testi dei Bachi da Pietra? Flusso di coscienza o c’è dell’altro?

Questa cosa del flusso di coscienza è un mito giovanilistico che va sfatato. In parole povere una grossa cazzata. I risultati si ottengono con la determinazione, l’impegno, la lima, il confronto, la curiosità, l’ascolto, la ricerca della precisione, la ricerca dell’autenticità, gli errori, l’autocensura, il riascolto, l’approfondimento, la padronanza dei mezzi che usi, la coscienza del tempo in cui vivi, l’umiltà, l’umanità. Se manca la scintilla tutto questo che ho detto non produce niente. Ma se c’è solo la scintilla, hai voglia a dare flusso alla coscienza: ...ti manca l’esplosivo. Se hai scintilla ed esplosivo, trovati un obiettivo.

Sappiamo che sei laureato in lettere a indirizzo italianistico, quanto ha influito ciò a livello lirico, e soprattutto, continui a studiare?

Ha influito molto, dal momento che le mie passioni e i miei studi sono riusciti a coincidere. Ero un uomo felice tra questioni di filologia romanza e problemi di metrica trecentesca, o almeno così mi pare che fosse, non è detto che sarebbe stato; il fatto che poi abbia scelto altre strade per il sostentamento dei miei bisogni non ha ovviamente cancellato i miei interessi. Certo che continuo a “studiare”, non mi è mai costato fatica e per studiare intendo incuriosirmi, avere sete, frequentare altri mondi, altri tempi, persone morte che hanno lasciato parole vive, ritornare su vecchie pagine con occhi nuovi, su pagine nuove con occhi più vecchi. Dovendo fare altro per vivere mi rimangono i ritagli di tempo...Ma anche se così non fosse, tutta la vita non basterebbe lo stesso. E non basterà, devo cominciare a farmene una ragione. Lascerò inesplorate un sacco di cose.

Sono curioso di sapere quale sia lo scrittore italiano in cui più ti rispecchi, ma ancora di più, quale sia quello più ostico per te...

Lo scrittore di che cosa. La domanda è un po’ generica. Quanto ai versi Giorgio Caproni è sicuramente l’autore contemporaneo in cui da anni si rispecchiano di più i miei gusti. Il più ostico: ...in che senso? Nel senso impegnativo ma piacevole (quindi il più difficile ma godurioso: direi il Giovanni Giudici di Salutz); oppure intendi quello che non reggo. C’è una bella differenza e comunque in questo non farei testo: mi risultano spesso pesantissime e insostenibili le cose fatte apposta per essere leggere. Come le canzoni del festival o la musica di sottofondo nei centri commerciali o alle feste di compleanno. E’ chiaramente un limite mio.
In genere non reggo gli scrittori italiani giovanilisti, o quelli che scrivono come voci fuori campo usando sempre solo il passato prossimo o il passato remoto: e sono la maggior parte. Spesso coincidono.

Dal generale allo specifico: Tarlo Terzo pare porsi in maniera meno velata verso certe tematiche sociali..

Messa giù così farebbe pensare al solito cantautore italiano che per darsi arie da impegnato ti spiega chiaramente che lui è nel giusto e tutti gli altri sono in errore. Non è così nei BDP. Nessuno ti mette in mano una bandierina da sventolare o un accendino da far brillare. E’ pur vero che volendo analizzare la cosa con occhi vergini, tutta la vita è una tematica sociale, e a me interessa la vita del singolo individuo, come si rapporta col mondo. Un mondo fatto di singoli individui, determinato da ogni singola scelta.

F.b.d. (Fosforo Bianco Democratico) è un titolo molto forte, presenta l’ossimoro putroppo riscontrabile nella realtà, quale è stato l’input per stenderla?

E’ un titolo molto forte ma purtroppo non è opera di fantasia. Si tratta di uno dei mezzi con i quali noi abbiamo testimoniato nel mondo quello che siamo in grado di fare se lo riteniamo necessario a fini economici e di potere (perché di questo si tratta, il resto sono fiabe per ingenui). Fatto sta che alla fine le armi di distruzione di massa le avevamo noi e per far prima le abbiamo usate. Mi sono imbattuto un paio d’anni fa nei documentari di Rai News 24 che mostrano immagini dell’attacco notturno su Falluja, Iraq. Sappiamo essere molto pragmatici, dis-umani come gli altri, quando si tratta di affari e denaro; come un qualsiasi “Stato canaglia” che noi additiamo sdegnosamente, noi stessi in cinque minuti possiamo sotterrare nello sterco il Cristo Santo, anneghiamo nel pozzo il Gesù bambino e le renne della Coca Cola, pisciamo sui diritti dell’uomo, della donna, dell’infanzia, sul manuale del trapper, su Pippo Pluto e Paperino, sull’orso Yoghi e Bubu, sulla salvaguardia della foca monaca, sulla tutela delle belene, sull’ampolla di san Gennaro, sulla tomba di quella santa di nostra madre. Poi passa: torniamo candidi aspiranti alla costruzione di un mondo fondato sul rispetto, sui principi del dialogo, del confronto, della soluzione diplomatica delle questioni internazionali. Se riteniamo di aver sbagliato, a posteriori possiamo addirittura arrivare, molto civilmente, ad ammetterlo. “E’ vero, ci siamo sbagliati”. Potenza dello spettacolo.

Qual è secondo te il potenziale della musica odierna nell’esprimere queste tematiche, tenendo conto della società che viviamo?

E’ pari al potenziale di espressione della qualsiasi cosa che ti prema espellere, se ti preme farlo. L’utilità è ovviamente pari a zero.

Molti artisti sognano di scrivere colonne sonore, a te chiedo: hai mai pensato di cimentarti in un audio-libro?

Caspita, si. Ho un progetto da qualche anno, piuttosto ambiziosa, ci sto lavorando: l’esecuzione per sola voce de Il conte di Kevenhuller di Giogo Caproni.

I vostri dischi sono pubblicati per la Wallace Records, alchimia perfetta?

No, ...è che ci pagano talmente tanto che alla fine ci sentiamo quasi un po’ obbligati.

Dovessi citare tre compagni d’etichetta che più apprezzi?

Difficilissimo perchè una sfilza di gruppi e di persone interessanti passano e sono passati da queste parti in dieci lunghi anni… Impossibile. Andate sul sito della Wallace e scorrete l’elenco dei gruppi. Se riuscite a dirne solo tre vi pago da bere.

Siamo in chiusura…che sviluppi vedi nel suono dei Bachi da Pietra?

Non li vedo. Li sento. Spero li sentirete anche voi.

L’ultimo libro che hai letto?


Sulla spalliera del letto tengo un numero di libri a rotazione, cominciati o ripescati più o meno simultaneamente. Nelle letture di svago non sono metodico. Non sempre li finisco, soprattutto se non mi svagano, ma loro non si offendono. Sanno che magari poi torno in un altro momento. Oppure semplicemente se ne fanno una ragione. Ad esempio mi sta annoiando Gang Bang di Chuck Palahniuk, che per altri titoli era stato tra i miei preferiti. Molto meglio Opus Pistorum di Henry Miller... Altri presenti al momento: Le città invisibili e Palomar di Calvino (li rileggo sempre volentieri aprendoli a caso), la scuraglia di Tiziano Scarpa, un manuale di filosofia presocratica in quattro volumi, V per Vendetta, Cage, Rat-Man (fumetti), un libro fotografico sulle creature delle fosse oceaniche (Abissi, di Claire Nouvain), un saggio sulla prima guerra mondiale e uno sulla pratica della rapina nel Medioevo, una monografia sulla storia della scherma, alcune opere in versi (Giovanni Giudici, Erri De Luca, Ludovico Ariosto...). La spalliera del letto consiste praticamente in un vecchio mobile-giradischi degli anni Cinquanta che stava nel salotto buono dei miei… Altezza giusta, larghezza abbondante… La radio funziona ancora.

Grazie per la disponibilità Giovanni, a te il compito di chiudere l’intervista.

Notte.


Neuros